Luciano Regolo: Maria José, di cui io oltre ad aver raccolto le memorie ho esaminato tutti gli scritti prima che lei li affidasse al British Museum, mi spiegò che al principio lei, occupandosi prevalentemente di beneficenza come ispettrice della Croce Rossa, non aveva chiaro quali fossero i costi umani e politici dell’ordine e del buon funzionamento che sembravano regnare in Italia. Si era adirata perché il duce voleva costringerla a italianizzare il suo nome in Maria Giuseppina, ma si trovò un compromesso e la stampa la chiamò solo Maria per non offendere né la Corona, né il dittatore. Poi, furono intellettuali come Croce, ma anche Zanotti Bianco, assieme a Sofia il più intimo dei confidenti di Maria José, a farle comprendere i soprusi del regime. Una volta Zanotti Bianco venne arrestato al Palazzo Reale di Napoli mentre si trovava con la principessa. Ma l’elemento decisivo che spinse Maria José a passare all’azione in prima persona fu l’abbraccio fatale dell’Italia fascista con la Germania di Hitler. Maria Josè non soltanto detestava il nazismo, con le sue violenze e con le sue esaltazioni, aveva uno spiccato sentimento antitedesco che si portava dietro dalla Prima Guerra Mondiale, poiché il Belgio, suo paese natio, era stato invaso dalla Germania. Perciò, lucidamente aveva previsto che in caso di un altro conflitto, di nuovo sarebbe accaduta la stessa cosa e lei si sarebbe trovata principessa ereditaria di un Paese alleato con l’aggressore della sua patria.
Che c’entra monsignor Giovanni Battista Montini in questi intrighi di palazzo?
Luciano Regolo: «Non li definirei intrighi di palazzo, la segretezza era dovuta. C’erano “cimici” al Quirinale, microfoni ovunque come conferma il diario di Sofia, per questo, Maria José, per eludere i controlli dell’Ovra, se non poteva incontrare fuori i suoi interlocutori, a Palazzo li riceveva nel suo anti-bagno, facendo tirare di continuo o a Sofia, o a Giuliana Benzoni lo sciacquone per evitare che venissero ascoltati i suoi discorsi. Montini che era sostituto alla Segreteria di Stato, fu indicato da Pio XII, in ottimi rapporti tanto con Maria José, quanto con Umberto, come interlocutore e suo tramite, anche per non dare nell’occhio con troppe visite in Vaticano. Montini garantì il contatto con gli Alleati attraverso gli ambasciatori presso la Santa Sede e collaborò moltissimo con Maria José e sua madre, Elisabetta del Belgio, a far mettere al sicuro tante famiglie ebree che vivevano in Italia o vi transitavano, fuggendo dalla Germania o dai Paesi occupati dai tedeschi. Sofia racconta nei suoi diari che Montini arrivava al suo laboratorio “in incognito” a bordo di un calesse. Anche Maria José si camuffava con un gran foulard sul capo e dei grandi occhiali scuri. Un messaggio in codice di Pacheco, ambasciatore portoghese presso la Santa Sede, nel 1942, fu intercettato dalla polizia, ma Senise avvertì Maria José e tutto andò nel migliore dei modi».
Qual era la posizione della Santa Sede rispetto alla Corona ed al Regime?
Luciano Regolo: Sia Pio XII sia Montini risultano negli scritti di Sofia, ma anche nelle agende di Maria José, nettamente ostili alla dittatura e all’alleanza con la Germania. Quando i Savoia lasciano Roma l’8 settembre del 1943 Otto ed Elisabetta d’Assia, i figli minori di Mafalda di Savoia,che si trovava in Bulgaria per i funerali del cognato Boris III, vennero accolti da Montini che li tenne al sicuro in Vaticano, dove la madre li incontrò prima che fosse catturata e condotta a Buchenwald dai nazisti. Dopo la liberazione e il ritorno di Maria José a Roma, quando il marito era Luogotenente del Regno, nel 1945, si temeva un attentato contro di loro al Quirinale. Allora la principessa chiese a Montini se poteva affidargli i figli, ma lui rifiutò, poiché a questo gesto sarebbe stato dato un significato politico di appoggio alla monarchia. Fu qualcosa che turbò e ferì molto Maria José, risulta in pieno da tutti gli scritti che ho consultato. Poi però comprese quale fosse la situazione. E tutte le agende di Sofia del 1945 e del 1946 documentano come il Vaticano pur non prendendo una posizione ufficiale cercò di favorire i contatti della principessa con esponenti della Democrazia Cristiana, con leader dell’associazionismo cattolico e con ferventi predicatori. Montini rimase in contatto epistolare con Sofia sino alla sua elezione a pontefice, come provano due sue lettere inedite pubblicate nel mio libro»
Nell’undicesimo capitolo Lei parla di una trama Vaticana. Di che si tratta?
Luciano Regolo: È un po’ quello cui accennavo poc’anzi. Un tassello importante di questa “trama” fu l’iniziativa della Principessa Pacelli, sorella del Papa che coordinò un gruppo di influenti dame cattoliche per mandare ad Alcide De Gasperi una circolare in cui si chiedeva esplicitamente che la Democrazia appoggiasse la Corona al referendum. Altra maglia fu imbastita da personaggi come Monsignor Paolo Barbieri che appoggiarono decisamente la causa monarchica promuovendola negli ambienti ecclesiastici. Ma alla fine la Democrazia Cristiana scelse di lasciare liberi gli elettori sulla scelta referendaria, temendo di indebolire la compattezza di fronte al pericolo “rosso” costituito da Pci e Psi e allo spauracchio di una sovietizzazione dell’Italia. Quanto alla Chiesa non avrebbe potuto esporsi (né era suo compito farlo) su un simile aspetto della vita istituzionale italiana, anche perché al di là delle singole posizioni all’interno di Casa Savoia, molti italiani la ritenevano responsabile quanto Mussolini, dei disastri bellici e della guerra civile che avevano dilaniato l’Italia. Pio XII tuttavia non fece mai mancare il proprio sostegno umano e religioso, né la propria amicizia agli ultimi sovrani, anche nei primi anni d’esilio».
Dopo aver conosciuto i tanti retroscena, che idea si è fatto di Maria José di Savoia?
Luciano Regolo: Una donna intelligente, ironica, coraggiosa, curiosa del vivere, una personalità affascinante, decisamente controcorrente per l’Italia di allora. Nella sua vita ha incontrato le figure più disparate da padre Pio a Mao Tse-Tung, da d’Annunzio a Benedetti Michelangeli. Soffrendo enormemente di dover lasciare l’Italia reagì dandosi ai viaggi, alla scrittura di ottimi libri di storia, alla fondazione di un premio internazionale musicale. Quando le permisero, dopo la morte di Umberto, di rientrare in Italia, mentre al figlio e al nipote era ancora negato scrisse con ironia sulla sua agenda: “Ormai come vedova non conto più niente”. E a Torino a un giornalista che le chiese se credeva a un ritorno della Corona in Italia, rispose: “Sarò pure una regina, ma non sono monarchica”. Tanti come Carandini, Vittorini e altri dissero che “era l’unico vero uomo di Casa Savoia”. Carlo Antoni, più saggiamente, scrisse che “era evidente in lei una schietta volontà di contribuire alla salvezza del Paese e alla sconfitta del nazi-fascismo”. Se fosse stata ascoltata dal suocero, se Vittorio Emanuele III avesse avuto la sua stessa determinazione forse la dinastia non sarebbe stata travolta. Lei stessa tuttavia era solita ripetere che “non era facile in un contesto come quello prendere delle decisioni”. Così come ribadiva del marito: “Umberto sarebbe stato un ottimo re”. Io da repubblicano convinto posso dire di lei che sarebbe stata un’ottima regina.
(La prima parte è stata pubblicata ieri, lunedì 16 dicembre)