Un cristiano e un ebreo si incontrano a Roma

Netanyahu e Bergoglio: i luoghi delle radici ed i luoghi della Fede

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Benjamin Netanyhau è un ebreo sefardita, la cui famiglia viene dal Marocco: fu suo padre, morto ultracentenario da  poco tempo,  grande storico del movimento sionista, a compiere la “alia”, l’ascesa al monte di Sion, che per gli Israeliti significa l’adesione al progetto di una loro Patria nella Terra Promessa.

Il fratello del Primo Ministro, ufficiale delle famose forze speciali di Israele, condusse l’operazione per liberare gli ostaggi di Entebbe, e fu l’unico caduto nell’operazione: aveva voluto alla testa dei suoi uomini, e la pallottola che lo uccise fu forse l’unica che i terroristi riuscirono a sparare; per questo, nel suo Paese è considerato un eroe nazionale.

Da suo padre, il Primo Ministro eredita le convinzioni; da suo fratello, la determinazione nell’agire per realizzarle.

Questa durezza dell’uomo, la franchezza a volte perfino brutale che lo contraddistingue non soltanto con i nemici, ma anche con gli amici e con gli alleati – è dei giorni scorsi la polemica con Obama sull’accordo riguardante il nucleare iraniano, che il Premier considera soltanto un inganno – non viene soltanto da quel “primum vivere” o “safety first” che rappresenta la costante della politica estera e difensiva dello Stato ebraico, ma anche – precisamente – dalla radice sefardita.

Questa parola, in ebraico, significa semplicemente “spagnolo”, ed infatti le memorie familiari di quanti appartengono a questo ramo del popolo d’Israele risalgono al 1492, l’anno che per i noi segna l’inizio della cristianizzazione dell’America, ma per esso rappresenta una data infausta, seconda nel segnare una disgrazia collettiva solo all’anno 70 dell’era volgare, con la distruzione del Tempio di Salomone e l’inizio della diaspora.

La Spagna di Avicebron e di Maimonide, quella della grande cultura prodotta dalla convivenza armoniosa delle tre religioni monoteiste, è considerata dagli Ebrei sefarditi come il luogo in cui vissero un’epoca felice, una delle poche segnate dalla tolleranza e dalla parità di diritti con i Gentili.

Al ricordo doloroso della catastrofe causata dai Re Cattolici con il loro decreto di espulsione, che portò gli Israeliti della Spagna a disperdersi tra i Paesi Arabi, la Provenza, l’Italia, fino alla Grecia e alla Turchia – Paesi dove ancora essi mantengono lo spagnolo arcaico del XV secolo, detto appunto sefardita – si sarebbe sovrapposta in età recente, quella di cui Netanyhau ha memoria diretta, un’altra catastrofe, un’altra cacciata, quella dalle Nazioni islamiche, prodotto del conflitto tra il nazionalismo ebraico ed il nazionalismo arabo.

Se il sionismo fu iniziato, nella sua elaborazione teorica, dagli Ebrei askenaziti dell’Europa Centrale, ma soprattutto Orientale – Herzl era originario dell’Ungheria – si può dire che furono i Sefarditi ad alimentare maggiormente le ondate migratorie verso Israele successive all’Indipendenza, e giunsero nella Terra Promessa portando con sé un orgoglio identitario certamente meno incline al cosmopolitismo rispetto agli Askenaziti, essendo più motivato dalla particolarità religiosa che dalla identità nazionale.

E se gli askenaziti avevano visto nella prima colonizzazione della Terra Promessa la realizzazione dell’utopia socialista – furono loro ad inventare il “kibbuz”, ma anche a fondare i sindacati, sul modello del “bund” russo e polacco dell’Ottocento – i Sefarditi si orientarono invece prevalentemente verso i partiti religiosi.

Netanyhau deve infatti le basi della sua formazione politica al nazionalista Jabotinsky, più che al socialista Ben Gurion, proveniente dalla Polonia: non a caso il Primo Ministro è cresciuto nel blocco LiKud di Shamir e di Begin, i quali appunto si rifacevano al pensiero ed all’organizzazione politica propri dell’Irgun di Jabotinsky.

Oggi Netanyhau ha incontrato per la prima volta Papa Francesco: quando due persone si conoscono, cercano subito, spontaneamente,  quanto le accomuna. Essendo i due interlocutori sono entrambi uomini di fede: e non è casuale – a questo proposito – la data scelta per l’incontro, che si colloca nel periodo di Hanuka, la più importante delle feste ebraiche delle luce, quando si accende sera per sera il candelabro a nove braccia.

 Tutti i credenti chiedono a Dio che li illumini, anche se la luce invocata dl Primo Ministro si riferisce forse – più che alla sapienza – al cammino del suo popolo: ed egli sa bene quanto questo cammino sia stato pieno di insidie e di dolore; è facile che il gesuita Bergoglio riferisca piuttosto la luce della fede all’intelletto.

Entrambi gli interlocutori, però, sono dei nazionalisti: orgogliosamente sionista l’uno, e altrettanto orgogliosamente bolivariano l’altro. E parlandosi da nazionalisti extraeuropei avranno certamente ricordato, o anche semplicemente sussunto, come il tempo della loro vita abbia coinciso con quello del riscatto: l’America Latina ha perseguito la sua “Seconda Indipendenza”, quella dal neocolonialismo, proprio mentre gli Ebrei ricostruivano – dopo quasi venti secoli –  il loro Stato.

Il Dottor Riccardo Samuele Di Segni, Rabbino Capo di Roma, di cui si dice sia simpatizzante del Blocco Likud, non avrà certamente mancato di ricordare al suo ospite che in città c’è l’Arco di Tito, ma anche come, nel giorno dell’Indipendenza di Israele, tutta la Comunità di Roma (tra cui i suoi genitori) volle varcarlo solennemente, nel segno dell’avvenuto riscatto.

Questa affinità tra i due potrebbe a prima vista essere considerata un fattore non favorevole alla causa della pace. Eppure, può essere che così non sia: il nazionalismo ebraico ed il nazionalismo arabo fecero a lungo causa comune contro il dominio straniero, e le truppe armate dall’Agenzia Ebraica – nucleo del futuro Stato d’Israele – marciarono insieme con quelle arabe per le vie di Gerusalemme non soltanto nel 1918, vinta la prima guerra mondiale, ma anche nel 1945: la Brigata Palestinese, detta anche Brigata Ebraica, che partecipò alla Liberazione di Roma, vedeva uniti soldati di entrambi i popoli.

Poi, come è avvenuto in tantissimi luoghi del mondo, i due distinti nazionalismi cominciarono a configgere. L’accomodamento che si sta faticosamente cercando mira a  conciliare questo dissidio, ma non si è riflesso – malgrado i tentativi dei fanatici e degli estremisti della due parti – sul terreno religioso. Il dialogo tra le tre religioni abramitiche è proseguito senza risentire oltre misura del conflitto – per così dire temporale, civile – tra le ragioni opposte delle due Nazioni.

Il Papa sarà il prossimo anno a Gerusalemme, soprattutto per  promuovere l’unità dei Cristiani, nel cinquantennale dell’incontro tra Paolo VI ed Atenagora I. Tuttavia, la salute di Gerusalemme è la salute del mondo, e nel mondo non ci sono soltanto i Cristiani. L’arrivo di un extraeuropeo, proveniente da oltremare, sulle sponde del Tevere, ripete e ricorda sia l’insediamento del Cristianesimo, portato dagli Apostoli, sia quello degli Ebrei, il primo della diaspora.

Disse il Dottor Di Segni ricevendo nella Sinagoga di Roma, posta proprio nel luogo dove sbarcò San Pietro, che l’equilibrio religioso dell’Urbe richiedeva la presenza concorde di una comunità cristiana, con il suo Vescovo, e di una comunità israelitica, con il suo Rabbino Capo. La stessa concordia è possibile per Gerusalemme, ed è quanto tutti auspichiamo per il santo colle di Sion, legato alla memoria di Abramo, di Gesù e di Maometto.

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Alfonso Maria Bruno

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