"Sotto le macerie del male, Dio ha deposto il suo seme di vita"

Commento al Vangelo della IV Domenica del Tempo di Avvento. Anno A

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Nel timore di Giuseppe si riflette, identico, il nostro, incapace di sostenere una relazione quando ci trascina nel mistero che sfugge alla nostra ragione e al nostro cuore. Mai come in questa società che ha sepolto la fatica delle relazioni nell’inganno delle chat, la paura dell’altro asfissia giovani e adulti.

Ma la prima paura è quella di noi stessi. Figli nel Figlio, nel seno immacolato di Maria immagine della Chiesa abbiamo ricevuto le sembianze di Gesù, la stessa natura di Dio. Ma nonostante ciò, ci disprezziamo. Insidiati da target e obbiettivi sempre più esigenti non ci sentiamo mai all’altezza. E i peccati a graffiarci e a gettarci nella depressione.  

Disprezzandoci, finiamo con il disprezzare. Si tratta, in fondo, della paura e dello scandalo di un’infinita distanza, la lacerazione di una ferita sempre aperta tra la sublimità della nostra vocazione e la nostra infinita inadeguatezza. Lo scandalo e la paura di Giuseppe di fronte a Maria e alla sua gravidanza.

Era accaduto qualcosa di strano, fuori dai calcoli e dalle regole: Dio, infatti, appare dove nessuno se lo aspetta. Senza preavviso, senza chiedere il permesso, al di là di ogni legge. Addirittura al di là della sua  stessa Legge. Maria, la “promessa sposa” di Giuseppe che ancora non era andata a vivere con lui per compiere le nozze, era rimasta incinta. Da schiantare il cuore. Lo schianto dell’Incarnazione, evento imprevisto sul crinale della Storia.

Eppure era così dolce, così speciale quella Ragazza. Che cosa poteva essere accaduto, che lampo di follia, che demonio si era scatenato? Giuseppe ora era tremante, impaurito, e cercava modi e parole per ovviare all’imponderabile. Era ancora troppo carnale per guardare al di là della carne. Impossibile comprendere che la sua vocazione passava per quella prova.

Non poteva capire quello che era capitato a Maria. E Lei, senza dirgli una parola, muta serbava tutto nel suo cuore, nella certezza che lo stesso Dio che aveva parlato a Lei avrebbe parlato anche a Giuseppe.

Ma intanto Maria era scappata dalla cugina e le chiacchiere giravano. Giuseppe le ascoltava e non avrebbe voluto sentirle, erano tizzoni ardenti che gli ribollivano dentro. Che lotta s’era accesa nella sua anima. Non voleva accettare quello che il mondo aveva creduto, l’ovvio e indubitabile, un peccato da punire e un disonore da lavare con il sangue.

Giuseppe era “giusto” e giustizia voleva lapidazione per una donna come Maria. Ma questo no, era troppo, piuttosto l’avrebbe “rimandata in segreto”. Non si sarebbe mai più sposata, ma almeno le avrebbe salvato la vita. Una soluzione, la migliore possibile a chi ancora non ha ascoltato le parole dell’Angelo e vive nel perimetro della carne.

Come accade a noi, anche oggi, dinanzi alla nostra vita. Cerchiamo ricorsi umani, “giusti” per carità, per chiudere nel fondo di un cassetto gli eventi e le persone che sfuggono alla logica e alla ragione.  Non uccidiamo nessuno, non divorziamo e non scacciamo la figlia via di casa. Ci limitiamo a “rimandare tutto e tutti nel segreto”. Niente scandali, ma nel cuore scende il gelo di una relazione ridotta a cadavere. Non ce la facciamo, proprio come Giuseppe, è troppo grande il mistero per mente e carne così limitate, la nostra vocazione non può passare per la vita di oggi, così misteriosa e dolorosa…

Ma “mentre stava pensando a queste cose”, Giuseppe piomba nel sonno stanco e incapace di reggere all’urto di quell’evento. Un sonno fecondo come quello di Adamo,  un grembo benedetto dischiuso ad accogliere la sua paura, per generare in lui la fede che già aveva dato frutto in Maria.

Il sonno che ci prende tante volte, al culmine dell’angoscia per le sorti delle persone care, la notte che avvolge presente e futuro e ci getta nello sconforto. Notte benedetta la notte della paura, come quella che vide la fede di Abramo sulla sommità del Moria quando si dispose  ad offrire suo figlio Isacco; come quella che ingoiò la superbia di Giacobbe e lo accompagnò a conoscere il Signore dopo aver lottato con Lui sperimentando la propria debolezza; come quella della Pasqua che vide il Popolo passare indenne il mar Rosso e Cristo risorgere vittorioso dalla morte.

La notte di Giuseppe e la nostra, intrise di angoscia e paura, lo spettro del fallimento, i fendenti impietosi del demonio e la voce del messaggero ad annunciare il angelo: “Giuseppe, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quello che è generato in lei viene dallo Spirito Santo”. Tua sposa. Agli occhi di Dio la promessa sposa è “già” sposa.

Sì, Dio è voluto scendere in territorio nemico, senza peccato il Figlio e la Madre si sono fatti peccati al di là della Legge. Perché nessuno dubitasse dell’opera di Dio e tutti potessero accogliere un amore che, per donarsi, “non ha conosciuto uomo”. Per amore dei peccatori, Dio ha infranto le regole del mondo, la biologia del cosmo, tracciando, dall’eterno e per l’eterno, un cammino di salvezza tra le piaghe dell’umanità peccatrice.

Dinanzi a Giuseppe come davanti a ciascuno di noi si svela così il mistero dell’Incarnazione. E Giuseppe accogliendo l’annuncio che ha illuminato la notte, può accogliere Maria e Gesù, Dio che salva. “Si desta dal sonno”, risuscita (secondo il significato dell’originale) dai dubbi e dalle paure, e, libero, può obbedire alla volontà di Dio.

Anche noi, in questa Novena che ci accompagna al Natale, ascoltiamo lo stesso annuncio: “Non temere di prendere con te la storia e le persone che Dio ti sta donando”. In esse vi è deposto il seme dello Spirito Santo. Non importa se le apparenze dicano il contrario, e gli occhi della carne sono incapaci di riconoscerlo. Ciò non significa che non vi sia. Quando sibila il vento e si scatena la tempesta nessuno mette in discussione l’esistenza del sole…

Solo la predicazione del Vangelo può illuminare la notte, destarci e aiutarci ad obbedire, perché la salvezza giunga in ogni angolo della storia. Come Maria “è già” sposa agli occhi di Dio così  il nostro matrimonio “è già” santo, anche se non riusciamo più a parlarci; nostra figlia “è già perdonata”, anche se non ascolta e sta buttando la sua vita; così anche se ora non abbiamo lavoro, Dio non smette di guardarci e riconoscerci come suoi figli; basta solo ascoltare la sua voce e non indurire il cuore per “non temere di prendere con noi”, accettare la disoccupazione, la precarietà, la malattia, il dolore. In tutto vi è deposta la sua Grazia!

Soprattutto, “non temere” di prendere su di noi i peccati degli altri: anche sotto le macerie del male e dei peccati, Dio ha deposto il suo seme di amore e di vita. E’ Gesù, neonato tra il letame e la povertà, la stalla che è la vita di ogni uomo.

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Antonello Iapicca

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