“Che ve ne pare?”. Questa Domenica il Signore sembra chiederci un’opinione. Ma ascoltando bene la domanda e la parabola in essa contenuta, vedremo che, in effetti, non è questa che gli interessa, ma che ciascuno di noi scopra e accetti la verità del suo cuore.
Chi è cieco su sé stesso, infatti, non può convertirsi; non ne ha bisogno. È un ipocrita e vive ingannato; ha un cuore schizofrenico che si traduce in atti che smentiscono le parole, in comportamenti opposti alle decisioni che si illude di aver preso.
E’ schiavo di se stesso, come il secondo figlio della parabola che risponde “si, Signore. Ma non andò” nella “vigna”. L’originale greco tradotto con “sì” è “ego”, cioè “io”. Sembra strana come risposta, eppure è molto profonda. Non può dire neanche sì, non gli esce, fosse anche per mentire, perché Il suo “ego” lo tiene in scacco.
Non c’è spazio per l’obbedienza, perché il suo “io” soffoca quello dell’altro. Probabilmente non ha nemmeno ascoltato suo padre, impegnato a guardarsi con “vanagloria”, come i “capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo”.
Non a caso la Chiesa inizia ogni giorno con il Salmo 94: “Se oggi ascoltate la sua voce, non indurite il cuore”. Anche il padre della parabola dice qualcosa di simile ai due figli: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed è come se dicesse: “Ascoltami, e obbedisci (in ebraico lo stesso termine ha i due significati). Non chiuderti in te stesso, esci dal tuo egoismo e va’ ad operare nella vigna”.
L’originale greco tradotto con lavorare, infatti, significa anche operare, ed è un termine che nel Vangelo di Matteo e in quello di Giovanni richiama alla fede. L’opera per eccellenza è proprio credere. Niente di moralistico o volontaristico dunque. Il padre sta annunciando ai suoi due figli la Buona Notizia che per loro è preparata una “vigna” dove poter “credere”.
Allora, “che te ne pare?”, quale dei due figli sei? Hai accolto l’invito del Padre? Dove sei “oggi”? Sei andato nella “vigna”?
Se, come Giovanni Battista, ti dicessi che sei corrotto, attaccato al denaro, avido e avaro come un “pubblicano”? O se ti dicessi che sei una “prostituta”, venduto a chi ti offre più affetto e considerazione? Come reagiresti? Forse ti adireresti, e cominceresti a difenderti cercando di dimostrare che non lo sei. Sì, commetto qualche peccato, non rubo, non uccido, insomma, qualche parolaccia, uno scatto d’ira, e poco più.
Se pensi così significa che sei ancora cieco. “Pur vedendo” tanti peccatori convertirsi e camminare nella “via della giustizia” dove imparano a compiere la volontà di Dio, “non ti penti”. Non puoi “credere” all’annuncio della Chiesa perché cerchi la “vanagloria” dagli uomini. Il demonio ti sta ingannando incensando il tuo “ego”.
Sei troppo preoccupato di saziarlo che non puoi “lavorare nella vigna”: io, io, io, io… Quando gli altri ti parlano non li senti, perché non sono che appendici del tuo io. Non hanno nome, valore, importanza se non in relazione alla tua fame.
Come molti di noi hai bisogno di aprire gli occhi e scoprire che sei tu il figlio incapace di obbedire. Che sei un “pubblicano” che usa gli altri per saziarsi, come una “prostituta” che fa della sua vita, anche della chiamata ad essere cristiano, uno squallido mercimonio.
Solo chi si scopre peccatore può credere all’annuncio del Kerygma; solo chi ha compreso che è un orgoglioso e cerca la sua vita in quello che non sazia, come il secondo figlio, può obbedire al Vangelo per entrare nel Regno dei Cieli.
Ma non possiamo farlo da soli. Ci scandalizzeremmo di noi stessi, e ci disprezzeremmo. Per scoprire la verità e aprirci alla conversione abbiamo bisogno di un esodo come quello percorso nel deserto dal Popolo di Israele, nel quale scoprire quello che siamo e, contemporaneamente chi è Dio. Di una comunità dove sperimentare che non siamo soli, che Dio non ci ha abbandonati ai nostri peccati, e che Gesù cammina accanto a noi, come un fratello, con pazienza e misericordia.
Si potrebbe dire, infatti, che i due figli della parabola sono immagine il primo di Gesù, e il secondo di ciascuno di noi. Lui era il primo figlio, e si è fatto peccato, lasciando che tutti pensassero che fosse un empio millantatore; che si diceva figlio di Dio ma “non aveva voglia” di andare nella “vigna” a fare il “messia” come Israele si aspettava.
Ma proprio nella sua umiliazione ha aperto un cammino al “pentimento”, Certo, Gesù non aveva bisogno di convertirsi, ma ha voluto percorrere il cammino di ritorno a Dio perché noi tutti potessimo tornare a casa di nostro Padre, a lavorare nella sua “vigna”, come il figlio prodigo.
Nell’Antico Testamento essa era immagine di Israele, il Popolo che Dio aveva scelto per rivelarsi e divenire così segno della sua presenza tra le nazioni. Ma nel Nuovo Testamento essa diviene immagine della Chiesa, la comunità cristiana. E’ anche un anticipo del “Regno dei Cieli”, un suo segno visibile e credibile offerto al mondo.
In essa “lavorano” per crescere nella fede i figli di Dio. Ma qual è, concretamente, questo “operare”? Ce lo spiega San Paolo: nella “vigna” si cresce nell’amore e nella comunione, imparando giorno dopo giorno, “oggi” dopo “oggi”, a “non fare nulla per rivalità o vanagloria”; nella Chiesa si sperimenta la gratuità dell’amore di Dio.
Secondo l’originale, infatti, in essa non si “lavora” per un “salario” mondano, per la “vanagloria”, ma per la “gloria” autentica, la sostanza e il peso della vita che Gesù ha acquistato per tutti attraverso la sua kenosi, il suo annientamento.
Egli ha rinunciato a tutto e si è fatto l’ultimo, il servo di tutti, andando al nostro posto nella “vigna” ad offrire se stesso sulla Croce piantata in essa. Così ha inaugurato il cammino autentico per raggiungere la “gloria” preparata per tutti nel “Regno dei Cieli”. Per essersi umiliato il Padre “lo ha esaltato” e gli ha spalancato il Cielo dove è entrato con una carne simile alla nostra, primogenito di molti fratelli.
Per questo nel “Regno dei cieli” i peccatori “precedono” quelli che si ritengono giusti. Nella “vigna”, dove lo Sposo del Cantico dei Cantici scende per unirsi alla sua Sposa, sono rovesciati i criteri mondani, perché l’amore di Dio esalta gli umili, quelli che hanno riconosciuto la propria realtà e sono pronti ad annegare l’uomo vecchio nelle viscere di misericordia di Dio, e ricominciare ogni giorno con Cristo una vita nuova.