Mi confidava Ernesta che da quando era ventenne aveva sempre vissuto e lavorato in ospedale.

“Era la mia passione e la mia fortuna correre, sgambettare per i vari reparti.

Tutti apprezzavano la mia esperienza e la mia professionalità nel soccorrere gli ammalati. Da tutto ciò che riguarda la religione, la chiesa, mi tenevo a debita e rispettosa distanza. Non ne sentivo il bisogno.

Poi il periodo della malattia. Vivevo in un continuo stato di precarietà; passavo il mio tempo fra un esame clinico e un ricovero all’ospedale. Spesso ero nell’assoluta incertezza.

Insomma mi ritrovavo a chiedere a Dio un po’ di salute. Mi trovavo spesso in chiesa a lamentarmi con Dio che non mi guariva, a raccomandarmi alla Madonna. Tu che fai tante grazie. Perché non le fai anche a me?

Non mi accorgevo che, mentre chiedevo la grazia della salute, come unica soluzione ad ogni problema, Dio mi concedeva una grazia molto più grande: capire la precarietà non solo della salute degli altri, ma anche della mia vita.

In questa continua sospensione ho ottenuto il dono di sapere che Dio vale più di ogni suo dono, anche più della salute fisica. Ho maturato la consapevolezza che la morte non è una disgrazia, ma è – come la chiama S. Francesco – una “sorella” che ti prende per mano e ti porta a casa.”

Il pensiero continuo della morte che ti accompagna sempre, ti mette nel giusto rapporto di fiducia con Dio e di generosa donazione con gli altri. È una precarietà che ti fa trovare la vera stabilità.

La pedagogia di Dio educa e fa crescere attraverso il dolore e la precarietà della vita.

Ciao da p. Andrea

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