Prima Lettura Ez 18,25-28
“Così dice il Signore: 25 «Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? 26 Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso. 27 E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. 27 Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».”
Ecco la prova che, quando la WT addita Ezechiele 18,4 traducendolo (equivocamente) “L’anima che pecca essa stessa morrà”, per ricavarne (senza alcuna logica) la mortalità dell’anima, non sa quel che dice. I versetti seguenti di tutto il Capitolo 18, come quelli della Lettura, dimostrano chiaramente che la Bibbia non sta parlando della mortalità dell’anima (che poi se per “anima” geovisticamente si deve intende “uomo”, insegnare che l’uomo è mortale è un banale truismo). La Bibbia sta parlando bensì di una mortalità metaforica, quella della coscienza umana che peccando entra nel disfavore divino e, ai suoi occhi, è come morta. Infatti da tale morte, che appunto non è fisica, il malvagio può risuscitare mentre è in questa vita; basta che si penta e cambi condotta. L’assioma iniziale quindi “L’anima che pecca essa stessa morrà” introduce un insegnamento falso già nel suo porsi poiché non si parla di morte ma di responsabilità personale, come è chiaro dal contesto che Dio vuole smentire il valore dell’antico detto che circolava in Israele e diceva che se i padri peccano i figli ne portano il peso della colpa. La verità dice il Signore è che “chi pecca morrà”, ciascuno porta la responsabilità morale dei propri peccati; anche se è vero però che, quanto a conseguenze di impoverimento e danno, i figli ci vanno di mezzo e soffrono per le colpe dei genitori, pur restando essi incolpevoli davanti a Dio.
Seconda Lettura Fil 2,1-11
“Fratelli, … 5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
6 egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
7 ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
8 Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
9 Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
10 perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
11 e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.”
Gli antichi saggi, didatticamente dicevano che “Repetìta iùvant” (le cose ripetute giovano). E si riferivano agli insegnamenti importanti di saggezza e virtù. Giova inculcarli con la ripetizione e l’esempio. Ecco quindi che siamo alla terza volta in quest’anno che la Liturgia torna a riproporci questo splendido inno sulla divinità di Gesù, invitandocene alla imitazione, sia nei sentimenti interni che nelle opere “Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato” (1 Giovanni 2,6). Rimandiamo quindi alla trattazione già fattane in ZENIT dell’8 Aprile 2014 (per Domenica delle Palme, seconda Lettura). Ricordiamo solo che la divinità di Cristo è anche firmata dalla conclusione finale che invita a piegare ogni ginocchio davanti a lui. Cosa che, come sappiamo, era prerogativa di Dio Padre (cf Isaia 45, 28 “…davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua.”).
Vangelo Mt 21,28-32
Nulla da rilevare se non l’invito comune di onorare la richiesta-promessa che recitiamo nel Padre nostro quando diciamo al Padre “sia fatta la tua volontà”. Preghiera però che i “normali” TG sono esortati a non recitare, sia perché “preghiera ripetitiva” e il Signore – dicono! – non gradisce le preghiere ripetitive ma solo quelle spontanee. Sia soprattutto – il che lo pensano ma non lo dicono! – è una preghiera che è rivolta a Dio chiamandolo “Padre nostro”. Ma il geovismo insegna che solo i 144.000 sono propriamente “figli di Dio e fratelli di Gesù” non la grande folla di “altre pecore” composta dai normali TG. I quali dunque non devono rivolgersi a Dio come al loro Padre, ma hanno solo la prospettiva di considerarlo “nonno” (sic!) nella futura terra paradisiaca. Ecco i testi:
“Insieme a loro [agli Unti – Ndr] è sin dal 1918 d. C. una crescente folla di uomini di buona volontà. Anche questi possono rivolgersi a Geova come al “Padre nostro”, poiché, nel regno millenario di Cristo, diverranno i figli terrestri del datore di vita Cristo Gesù e sono quindi legalmente in grado di divenire “nipoti” di Dio. Nella Scrittura il nonno è spesso chiamato padre. (Sia Dio riconosciuto verace p. 159)
“Il secondo Adamo, comunque, è divenuto spirito vivificante. Come tale può adempiere la profezia di Isaia e divenire il “Padre eterno” della progenie del primo Adamo, che egli riacquista e adotta allo scopo di restituirle la vita umana perfetta su una terra paradisiaca. In tal modo il Padre celeste di Gesù Cristo diverrà il celeste Avo della ristabilita famiglia umana. (Sicurezza Mondiale sotto il “Principe della pace” p. 169)