Il referendum in Scozia

L’esito incerto mantiene un intero paese col fiato sospeso

Share this Entry

Il 18 settembre gli elettori scozzesi saranno chiamati a rispondere ad una domanda cruciale per il destino del paese: “Dovrebbe la Scozia essere uno stato indipendente?”.

Alla vigilia del voto l’esito è diventato impronosticabile. L’ultimo sondaggio del governo inglese ha evidenziato un tête-à-tête clamoroso, con uno svantaggio degli indipendentisti di soli quattro punti. Secondo le stime più recenti gli indecisi costituiscono il 9% dell’elettorato e saranno proprio loro l’ago della bilancia. L’incertezza sull’eventuale vincitore ha alimentato ancora di più l’euforia per un referendum che già infiamma il paese con dibattiti politici da mesi e mesi.

Per comprendere la valenza epocale del referendum è necessario analizzare con dettaglio sia il contesto storico sia quello più recente.

La storia di due popoli

Basta guardare alla storia della Scozia e dell’Inghilterra per capire la complessità del loro rapporto. Da una parte i due popoli condividono un grande legame culturale e sociale, ma dall’altra hanno un passato segnato da sanguinosi conflitti.

Nel 1296 Edoardo I d’Inghilterra approfittò di una crisi dinastica scozzese per invadere il paese, ma dopo varie guerre d’indipendenza la Scozia riuscì a riottenere la sua sovranità nel 1328. Nei due secoli successivi i rapporti rimasero ancora piuttosto aspri, ma gli inglesi preferirono non condurre un’altra invasione evitando quindi che peggiorasse ulteriormente l’instabilità politica nell’isola britannica.

Nel 1603 un importante avvenimento cominciò il processo di unione fra i due paesi: Giacomo I di Scozia successe al trono la Regina Elisabetta ed unificò le corone inglesi e scozzesi. Un secolo dopo, nel 1707, il parlamento inglese e il parlamento scozzese votarono l’Act Union siglando ufficialmente l’inizio di ciò che noi oggi chiamiamo ancora “Gran Bretagna”.

La Scozia giocò un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’impero britannico, tant’è che Glasgow veniva considerata come “la seconda città dell’impero”.

Il 18 settembre, l’unione politica, culturale, sociale ed economica fra i popoli britannici che dura ormai da 307 anni potrebbe smantellarsi ulteriormente (un processo in parte già iniziato con l’indipendenza della Repubblica dell’Irlanda nel 1922).

L’imminente referendum ha infiammato i dibattiti politici sia in Scozia sia nel resto del paese. In un reportage della BBC in cui si sono viste immagini di cittadini discutere e manifestare quotidianamente fra le strade delle città, l’inviato della tv popolare inglese James Cook ha descritto la scena con incredibile eccitazione: “Comunque vada, c’è così tanta emozione nelle strade. Non ho mai visto nulla di simile in vita mia”.

I movimenti nazionalisti

Nonostante l’unione della Gran Bretagna sia durata per più di secoli in modo abbastanza saldo, i movimenti nazionalisti della Scozia hanno sempre agito fortemente nella scena politica. Ciò è dovuto al fatto che il popolo scozzese ha sempre manifestato il suo patriottismo con orgoglio.

I nazionalisti enfatizzano i tratti tipici ed idiosincratici della cultura scozzese per spiegare i motivi della loro campagna per l’indipendenza. Eventi storici e simbolici (spesso riguardanti i conflitti con gli inglesi) hanno un significato importante per i nazionalisti: per esempio la figura di William Wallace, la diaspora degli Highlanders e la lettera del 1320 in cui un gruppo di nobili scozzesi, in conflitto con gli inglesi, scrissero una lettera al papa dichiarando che la Scozia sarebbe dovuta rimanere indipendente per sempre.

Negli ultimi anni la Scozia e l’Inghilterra si sono divise nettamente per quanto riguardo le idee politiche: gli elettori inglesi degli anni ’80 appoggiarono più volte il partito conservatore guidato dalla Thatcher, mentre la Scozia cominciò ad intraprendere una direzione verso la sinistra ed infatti ancora oggi la maggior parte dei politici scozzesi eletti nel parlamento britannico sono membri del partito laburista. Fra il 1979-1981 la Scozia subì un duro processo di deindustralizzazione per via delle trasformazioni economiche volute dalla Thatcher e questo aumentò ancora di più l’astio degli scozzesi verso il partito conservatore.

Negli ultimi anni infatti i sentimenti nazionalisti in Scozia sembrano essere aumentati. Basti pensare che nelle elezioni generali del 2010 in una sola regione scozzese è stato eletto un parlamentare conservatore. Secondo un sondaggio dell’Economist, nel 2013 solo il 23% degli scozzesi ha risposto che la loro prima nazionalità era quella britannica (nel 1970 si trattava invece del 39%).

I vari governi della Gran Bretagna, per evitare un rafforzamento dei movimenti nazionalisti, hanno intrapreso un graduale processo di devolution, ovvero di maggior federalismo, garantendo alla Scozia più poteri nei settori come quelli della sanità e delle tasse. Nel 1997 più del 74% degli Scozzesi votò favorevolmente ad un referendum per istituire un parlamento scozzese indipendente.

Nel 2011 l’SNP (il partito nazionale scozzese) guidato da Alex Salmond ha ottenuto una larga maggioranza, e ciò gli ha permesso l’anno successivo di passare l’Edinburgh Agreement, stabilendo dunque un referendum per l’indipendenza.

Le ragioni per il sì

Il movimento nazionalista dello yes vote guidato dallo SNP vuole ottenere l’indipendenza in modo da poter trarre maggiore beneficio dall’attuale stato di benessere della Scozia (secondo il Financial Times il livello di benessere per capita di un scozzese è più alto che in Giappone e in Francia). Dunque per l’SNP è necessario un controllo autonomo della spesa pubblica e del sistema fiscale.

Come menzionato pocanzi, la Scozia è tradizionalmente un paese di sinistra e l’SNP vuole trasformare ulteriormente la società verso una socialdemocrazia di tipo scandinavo con una maggiore spesa pubblica e una società più egalitaria.

Grazie all’indipendenza economica, Salmond promette maggiori sussidi per la famiglie, per il sistema sanitario e un aumento delle pensioni almeno del 2,5%. Lo yes movement ha anche suggerito di rinazionalizzare la Royal Mail, il servizio postale britannico che in Inghilterra contrariamente sta passando un processo di privatizzazione.

Per reggere le spese statali di una socialdemocrazia, lo yes movement si affida alle risorse del petrolio del Mare del Nord. Secondo le stime di Salmond, la Scozia potrà essere in larga parte indipendente energicamente, oltre a poter guadagnare ingenti somme con l’esportazione del petrolio. Nel 2012 circa un quarto degli esperti della Scozia era composto dall’oro nero del Mare del Nord.

Salmond ha anche aggiunto che usando un decimo delle somme ottenute dal petrolio (circa un miliardo) la Scozia, come la Norvegia, potrà creare un fondo utile per le generazioni future.

In vista dell’esaurimento del petrolio (fra circa 35 anni secondo le ultime stime), Salmond suggerisce di usare le risorse dello stato per puntare più fortemente sulle risorse naturali come l’eolico, il moto ondoso e l’energia mareomotrice. Secondo Salmond questo porterebbe alla “reindustrializzazione” della Scozia.

Pur non essendoci una posizione unitaria all’interno dello yes movement riguardo Bruxelles, Salmond ha più volte espresso di voler rimanere parte della UE. Il leader dell’SNP ha consigliato agli elettori di ottenere l’indipendenza per evitare di essere trascinati nel futuro referendum sull’uscita dalla UE voluto da una parte dei conservatori euro-scettici.

Pur aver confermato di voler far parte della NATO, Salmond ha detto che una Scozia indipendente avrebbe più risorse, perché eliminerebbe alcune spese militari e nucleari imposte dal governo britannico.

Oltre agli argomenti economici, c’è una chiara componente patriottica e d’identità nazionale all’interno dello yes movement. Lo s
tesso Salmond ha dichiarato apertamente che questo voto non va considerato come una mera opportunità politica, ma come diritto del popolo scozzese di poter scegliere il proprio futuro.

Le ragioni per il no

I maggiori partiti politici inglesi (Conservatori, Laburisti e liberal democratici) si sono mossi unilateralmente contro lo yes movement e i loro rappresentati nel parlamento scozzese hanno formato una coalizione, better together, di carattere unionista, guidato da Alistair Darling (ex cancelliere dello Scacchiere nel governo di Gordon Brown).

La coalizione better together è stata appoggiata dalla maggior parte dei media inglesi, dal Financial Times all’Economist, dal Guardian al Daily Telegraph

Anche la Regina Elisabetta a pochi giorni dal voto ha invitato gli scozzesi a “pensare attentamente’” al loro futuro. Un monito moderato ma che a tutti è parso come un invito da parte della famiglia reale di mantenere l’unione.

Una delle posizioni principali del better together è ovviamente quella di mantenere i legami culturali fra i due popoli. Come scritto in un recente editoriale dell’Economist: “La Gran Bretagna simboleggia l’idea che i popoli di diverse identità possono vivere insieme e che le loro diversità rafforzano le loro culture e decisioni politiche”.

Oltre alla volontà di evitare una divisione fra dei popoli con un forte legame storico, gli Unionisti hanno anche avanzato ragioni pratiche.

Secondo gli Unionisti grazie al Regno Unito la Scozia può contare su un paese che ha una grande influenza internazionale e un grande ruolo nelle organizzazioni internazionali come la NATO, le Nazioni Unite e la UE.

Nell’era della globalizzazione, gli Unionisti credono che la Scozia da sola soffrirebbe la competizione dei mercati emergenti, mentre rimanendo nella Gran Bretagna potrebbe trarre maggiori benefici rimanendo legata al settore finanziario-bancario inglese. Lo stesso Darling ha affermato che nel 2008 senza i bail-out del governo inglese la crisi del sistema bancario scozzese (specialmente per quanto riguarda la Royal Bank of Scotland) sarebbe stata catastrofica come quella irlandese e islandese. La Bank of England inoltre offre enormi risorse, una stabilità unica e dei tassi d’interesse molto bassi e dunque favorevoli per prestiti e mutui.

Gli Unionisti temono che il sistema “scandinavo” immaginato dai nazionalisti non sia praticabile perché la Scozia si indebiterebbe troppo. Nel 2012 la Scozia ha registrato un deficit in rapporto al GDP di quasi il 12% (più della Grecia). L’IFS (Institute of Fiscal Studies) in un suo documento ha sottolineato le difficoltà che affronterebbe una Scozia indipendente ed indebitata nel mantenere il sistema sanitario.

I nazionalisti contano di finanziare la spesa pubblica con le risorse del petrolio, ma gli Unionisti sono più scettici a riguardo e prevedono che il picco della produzione sia ormai già passato e che le risorse diminuiranno nei prossimi anni. Secondo le stime dell’SNP la Scozia otterrà 7,3 miliardi di sterline da qui al 2017-18 grazie al petrolio, ma tali cifre sono state smentite dall’Office for Budget Reponsibility che invece ha smorzato l’ottimismo abbassando le stime a 3.4 miliardi di sterline.

Inoltre, secondo l’Economist, una volta finito il petrolio una Scozia indipendente dovrà farsi da sola carico dei lavori di pulizia nelle zone dei giacimenti di petrolio: delle spese che potrebbero ammontare a circa 40 miliardi.

Un’altra questione fondamentale sollevata dagli unionisti e non risposta in modo chiara dai nazionalisti riguarda la valuta da usare in una Scozia eventualmente indipendente. Salmond ha suggerito di mantenere la sterlina (pur non avendo avuto conferme ufficiali a riguardo), ma Darling ha criticato la scelta dicendo che in questo caso la Scozia paradossalmente diventerebbe meno indipendente in quanto dovrebbe sottostare alle politiche monetarie di istituzioni ormai “straniere” come la Bank of England. Il Premio Nobel Paul Krugam ha infatti  avvertito in un articolo che le unioni di valuta senza unioni politiche o fiscali sono destinate a fallire.

Effettivamente gli unionisti non sono riusciti a rispondere in modo chiaro alle innumerevoli problematiche legate alla valuta come il sistema bancario e finanziario. L’Economist parla già di una certa paura per la fuga di capitali nel caso la Scozia non risolvesse la questione: varie compagnie che si occupano di assicurazioni e pensioni sono preoccuapte riguardo all’esito del referendum e potrebbero pensare di spostare i loro fondi in Inghilterra. La speculazione inoltre è già iniziata: non appena un sondaggio del governo ha annunciato che l’esito del referendum è praticamente impronosticabile, il valore della sterlina è diminuito e il prezzo delle azioni di Lloyds (un importante gruppo bancario inglese) è sceso.

Non a caso varie compagnie come la Royal Bank Of Scotland hanno annunciato che potrebbero spostare le loro operazioni a Londra nel caso lo yes movement vincesse.

Nei dibattiti con Salmond, Darling ha espresso la sua posizione pratica per quanto riguarda l’economia della Scozia: “Il referendum non va considerato come un esame sul nostro livello di patriottismo, ma come un esame sul nostro livello di buon senso”.

Possibili scenari

L’indipendenza della Scozia potrebbe avere uno shock fortissimo in tutto il paese. La Scozia dovrà risolvere importanti questioni burocratiche e politiche, mentre in Inghilterra lo smantellamento della Gran Bretagna verrebbe visto come la fine di un’era. C’è già chi parla di possibili dimissioni del primo ministro Cameron nel caso l’Inghilterra perdesse, ma il colpo maggiore lo subirebbe il Partito Laburista che da anni ottiene una gran parte dei suoi parlamentari dalla Scozia. Inoltre bisognerebbe poi domandarsi cosa potrebbe succedere in Galles e in Irlanda del Nord o addirittura, quale sarebbe l’effetto sui movimenti nazionalisti in altri paesi come in Catalogna.

Nel caso di un ‘no’, Londra potrà tirare un sospiro di sollievo, ma dovrà garantire all’SNP nuovi poteri autonomi e federali come promesso già  da Cameron.

Certamente il referendum in Scozia è un grande esempio di democrazia e di dibattito politico. Entrambe le parti hanno mostrato sia ragioni pratiche sia emozionali. Al di là del risultato sarà certamente una giornata storica.

Share this Entry

Alessandro Mancini Caterini

0

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione