Il senso della laicità di De Gasperi

Una riflessione nel cinquantennale della scomparsa dello statista trentino

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“Adesso ho fatto tutto ciò ch’era in mio potere, la mia coscienza è in pace. Vedi, il Signore ti fa lavorare, ti permette di fare progetti, ti dà energia e vita. Poi, quando credi di essere necessario e indispensabile, ti toglie tutto improvvisamente. Ti fa capire che sei soltanto utile, ti dice: ora basta, puoi andare. E tu non vuoi, vorresti presentarti al di là col tuo compito ben finito e preciso. La nostra piccola mente umana non si rassegna a lasciare ad altri l’oggetto della propria passione incompiuto”. Sono queste le parole che Alcide De Gasperi rivolse alla figlia Maria Romana qualche giorno prima della morte, avvenuta nell’estate di sessant’anni fa, il 19 Agosto 1954 (citato in Indro Montanelli, I protagonisti, Rizzoli, Milano 1976, 136s). Parole umanissime e al tempo stesso alte, che rivelano la profondità dello spirito di questo grande costruttore dell’Italia rinata dalle macerie della guerra, padre dell’Europa futura, di cui avrebbe posto le basi con altri statisti del calibro di Robert Schuman e Konrad Adenauer. In quelle parole è possibile cogliere le caratteristiche che hanno reso De Gasperi così decisivo nella storia del nostro Paese e nell’incontro delle democrazie del Vecchio Continente: in primo luogo la sua passione politica, quindi la sua laicità, e infine la sua fede, profonda e intensamente vissuta.

La passione politica nasceva in lui da un forte spirito di servizio al prossimo e da un alto senso dello Stato e delle istituzioni, finalizzate a regolare la società, ordinandola al primato del bene comune: esercitando ruoli di rappresentanza pubblica sin da giovane, dapprima nell’ambito dell’Impero Austro-Ungarico e quindi nella sua amata Italia, militando nel Partito Popolare di don Sturzo, prima, e poi nella forza politica che ne continuerà il progetto dopo la guerra, la Democrazia Cristiana, De Gasperi è stato uno dei maggiori uomini di Stato del secolo scorso. Imprigionato dal fascismo, in una lettera dal carcere, datata 6 agosto 1927, scriveva: “Ci sono molti che nella politica fanno solo una piccola escursione, come dilettanti, ed altri che la considerano, e tale è per loro, come un accessorio di secondarissima importanza. Ma per me, fin da ragazzo, è stata la mia missione…”. Rifiutando ogni concezione egoisticamente strumentale dell’agire politico, De Gasperi riconosce nell’impegno per la “polis” un’autentica vocazione, cui dedicare la vita come risposta generosa e disinteressata a una missione ricevuta: proprio così, egli percepisce che il prezzo da pagare dovrà essere spesso la solitudine, quella di chi è pronto a sacrificarsi per il bene di tutti e a non cedere al compromesso morale finalizzato a guadagni facili e imprigionanti. È ancora la figlia Maria Romana a ricordare un’illuminante frase di un libro scritto dal grande domenicano francese Sertillanges, sottolineata dal Padre: “La solitudine arricchisce di stimoli e contatti spirituali… Meglio una solitudine appassionata, in cui ogni raggio di sole produce una doratura di autunno… La solitudine vivifica, l’isolamento isterilisce”. Nel “tempo del deserto” (1926-1928), impostogli dal regime fascista, De Gasperi appunta a sua volta alcune parole, che ben fanno intendere la qualità interiore del suo impegno politico: “Tutte le grandi opere sono nate nel deserto”.

È questa radice profonda della sua passione politica che spiega anche la laicità di De Gasperi: essa non ha nulla del laicismo pregiudizialmente anticlericale. Com’è nella stessa etimologia della parola, derivante dal greco “laós” – “popolo”, laicità è per lui fedeltà assoluta agli interessi superiori del popolo, che si è impegnato a servire con l’arte della mediazione politica, e dunque è tenace dedizione al perseguimento del bene comune, da anteporre sempre ad ogni più o meno corto interesse di parte. In questa luce, si comprendono anche le distanze, a volte vissute molto dolorosamente, fra le posizioni del grande Statista e quelle di alcuni protagonisti della vita ecclesiale del suo tempo: De Gasperi non subordina mai i suoi doveri di uomo di governo alla ricerca di un’approvazione ad ogni costo da parte di pur alte autorità della Chiesa. In lui, l’obbedienza alla coscienza rettamente illuminata appare il criterio supremo di ogni scelta, l’unico in grado di salvaguardare l’agire politico da ricette strumentali, che alla lunga avrebbero potuto solo danneggiare il Paese e la stessa comunità ecclesiale. Così, di fronte alla parte del mondo cattolico che osannava al Regime fascista e alla conciliazione con la Chiesa, non esita a scrivere ad un amico: “Insegnare a stare in ginocchio va bene, ma l’educazione clericale dovrebbe anche apprendere a stare in piedi”. La lealtà del politico De Gasperi e la sua dedizione alle istituzioni, che egli stesso aveva contribuito in maniera rilevante a creare, sono il vero senso della sua laicità, che è forte senso del servizio da rendere al popolo e – se necessario – del prezzo da pagare in termini personali per il conseguimento del bene di tutti, specialmente di quello dei più deboli e svantaggiati.

C’è, infine, l’uomo di fede: in realtà, è questo terzo aspetto a ispirare in lui anche gli altri due. Nel lungo arco della sua vita, Alcide riproduce in un certo senso quello che suo fratello minore, Mario, più giovane di un anno, aveva vissuto nella brevità della sua esistenza: divenuto sacerdote, morì ad appena ventiquattro anni per una difterite contratta assistendo un ammalato. La motivazione di entrambe queste vicende umane fu l’amore al prossimo, ispirato e nutrito da una fede rocciosa, tanto viva e nutriente, quanto umile e discreta nel mostrarsi: è stata la Figlia ad avermi narrato una volta le ultime ore del Padre. Sul letto di morte, per l’intera giornata De Gasperi pronunciò più volte queste sole parole, rivolte al Crocefisso che aveva di fronte: “Gesù! Gesù mio!”. Il Padre dell’Italia democratica e della nuova Europa, moriva da semplice credente abbandonato in Dio, sostenuto dal profondissimo amore a Cristo, che era stato nutrimento e forza di tutte le stagioni della sua ricchissima vicenda umana. Consapevole dell’aver solo iniziato l’opera della sua vita, accettava di lasciarla incompiuta nelle mani di Dio, riconoscendo i traguardi raggiunti con realismo e onestà, e al tempo stesso ammettendo limiti che il tempo avevo reso più chiari ai suoi occhi. La fede non lo aveva mai estraniato dal mondo, gli aveva anzi consentito di entrarvi nella maniera più libera, lucida e profonda. E ora lo accompagnava nell’ultimo congedo, tutto consegnando al solo giudizio che conta. Quell’ultima luce illuminava così la verità dei suoi giorni, quella che resta e resterà come messaggio di vita e di speranza a tutti gli Italiani, e non solo a loro. Un messaggio di cui tutti, specialmente i politici, farebbero bene a far tesoro, traendone ispirazione e misura.

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[Fonte: Il Sole 24 Ore, domenica 14 settembre 2014, pp. 1 e 10

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Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

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