Per vent’anni Enzo Arus ha allenato i campioni destinati a partecipare alle olimpiadi, in particolare nel pentathlon moderno. Arus ha contribuito, nel 1984, ai successi, a Los Angeles, di Daniele Masala e Carlo Massulo. Vent’anni di lavoro, sudore, fatica, con successi in campo internazionale.
Oggi è allenatore di nuoto per bambini in numerosi centri sportivi e conteso tra professionisti e star del cinema che decidono di affidarsi a lui per mantenere la forma fisica. A colloquio con ZENIT, Arus ha raccontato la sua esperienza professionale e umana.
Come si fa ad allenare un campione e qual è la cura dell’atleta nella sua globalità?
Campioni si nasce, questa è la prima cosa. Pietro Mennea mi diceva: “È l’atleta che fa l’allenatore”. Sono proprio i campioni che fanno la fortuna di un allenatore. Il carico di lavoro per un campione è davvero massacrante, sono loro che fanno tutto il lavoro fisico, non dobbiamo mai dimenticarlo. Noi allenatori dobbiamo essere a servizio di questo talento, accompagnarlo, potenziarlo, guidarlo, anche capirlo. L’allenatore, infatti, deve essere prima di tutto uno psicologo, perché ogni atleta è diverso dagli altri. Alcuni devono essere stimolati continuamente, altri (e tra questi ricordo sempre Mennea), non hanno bisogno di stimolo, anzi a volte devi frenarli.
Qual è la stoffa del campione?
Il campione lo vedi subito: emerge dal resto del gruppo. È come se il campione fosse predestinato ad essere tale. Ricordo Daniele Masala, pentatleta (oro a Los Angeles 1984, argento a Seul 1988), gran nuotatore ma senza specializzazione in altre discipline. Comincio ad allenarlo e, dopo soli tre mesi, vince il campionato italiano di Triathlon (nuoto, corsa, tiro con la pistola). Il segreto per diventare campioni? Non ho dubbi: l’abitudine a soffrire, a dedicare la vita fin da ragazzo alla propria passione sportiva, a rinunciare a domeniche, uscite con gli amici, a volte persino ai Natali e Capodanni, per allenarsi o fare le gare. Non tutti sono disposti a questi sacrifici.
Qual è il ruolo educativo di un allenatore?
L’allenatore deve dare per primo l’esempio. Ad esempio arrivando in anticipo agli allenamenti o trattando ogni atleta con pari dignità. Anche gli atleti più deboli vanno trattati come tutti gli altri, perché, quando ti alleni, tutti sono uguali. Il campione invece deve dare l’esempio. È lui che deve far migliorare il più debole e spingerlo avanti. Se il campione non fa così, non è un vero campione. Il vero campione ha un effetto trascinante, sempre. Chi vince un oro olimpico, sa quanto bene può fare a tanti giovani che si sentono invogliati a praticare quello sport, perché la vittoria entusiasma tutti. Quando vinceva Adriano Panatta, i circoli di tennis erano strapieni di giovani.
Lo sport è diventato una forma di intrattenimento e spettacolo: secondo lei, attraverso lo sport agonistico, si creano più alleanze o divisioni?
La gente vuole vedere i campioni. È questo che attira il pubblico. Il trionfo crea sempre giubilo, festa, fratellanza. Non posso dimenticare ad ogni Olimpiade per atleti, allenatori e pubblico, l’emozione durante l’inno d’Italia. È qualcosa di indescrivibile, si prova un sentimento di unità, di profonda fratellanza. Un sentimento che commuove. Il tifo violento, le divisioni tra tifoserie, il gioco scorretto, quello non è sport. Senza un’etica, senza le regole non ci può essere sport.
Papa Francesco in molte occasioni ha invitato i campioni sportivi ad essere testimoni di pace, ed ha incoraggiato lo sport come strumento educativo per i giovani. Su questa scia, il 25 ottobre, all’Università Europea di Roma, si terrà un evento con testimonianze di grandi campioni, parleranno proprio due dei suoi atleti: Luca Pancalli e Daniele Masala. È soddisfatto di loro?
Moltissimo. Luca Pancalli è un esempio non per quello che ha raggiunto nello sport, ma per quello che ha raggiunto nella vita. La sua tenacia, la voglia di arrivare gli hanno dato la forza di raggiungere obiettivi così importanti che valgono anche di più di una medaglia. Questo mi emoziona ancora moltissimo. Daniele Masala, inoltre, con Carlo Massullo, è forse l’atleta che mi ha dato più soddisfazione, ha iniziato tardi, a 17 anni, ma è diventato un campione con una determinazione unica.
Arus, lei si definisce “maestro di sport e di vita” e continua ad allenare tanti giovani e giovanissimi, che consiglio darebbe ai genitori?
Accompagnate i vostri figli a fare sport, lo sport serve alla vita. Una volta accompagnati, lasciateli ai maestri, non intromettetevi troppo con consigli su come facevate voi. Scegliete un bravo maestro e fidatevi della sua esperienza. Lo sport in sé farà il resto, perché insegnerà a superare l’egoismo, insegnerà a entrare da subito in relazione con l’altro, a lavorare con una squadra. Una ricchezza che servirà per tutta la vita.
Chi sono per lei i campioni capaci di educare nel mondo dello sport?
Mi viene subito in mente Alessandro Campagna, allenatore del Settebello italiano (argento a Londra 2012). Un esempio, un leader che rispetta tutti, che sa come far funzionare la squadra nelle sue diverse dinamiche tecniche e psicologiche. Un vero signore della pallanuoto. Da piccolo Campagna mi disse: “da grande voglio essere come lui (Gianni de Magistri, argento alle Olimpiadi di Montreal ‘76), ebbene, lo è diventato e forse lo ha anche superato. Questa è la forza dell’esempio. Aldo Montano, bell’esempio di tre generazioni di campioni: “ricordati – gli dicevo – tu sei un Montano”. Aldo è una bellissima persona, campione, solare, trasmette positività. Questo è il bello, gli esempi trasmettono la forza e la passione, non si esauriscono con la persona.
Quali sono i suoi sogni, dopo una così lunga carriera di educatore e allenatore?
Mettere a disposizione tutta la mia esperienza ed energia che è ancora molto abbondante, per gli anziani e i down. Ciò che ho ancora da dare, lo voglio donare agli altri, specialmente ai più fragili.