Chi era davvero Giuda Iscariota? Un malvagio che trabocca ambiguità o, piuttosto, un debole che tradisce il Maestro, tentando un improbabile compromesso con il potere dell’epoca? In un romanzo assai atipico, Luca Doninelli prova a tracciare un identikit del più oscuro dei dodici Apostoli.
Fa’ che questa strada non finisca mai (Bompiani, 2014) è di certo un’opera che farà discutere. La tesi di fondo è tutt’altro che banale: quella tra Gesù e Giuda fu un’amicizia profonda e sincera. Narrando la sua vicenda in prima persona l’apostolo arriva a dichiarare: “Lui è stato il più grande tra tutti i miei amici e io, forse, il suo”.
Il ritratto che emerge di Gesù e Giuda è quello di due facce della stessa medaglia che, alla resa dei conti, si sono rivelate inconciliabili. L’autore assume il punto di vista di tutti coloro che, in duemila anni, hanno provato ammirazione ma non vero e proprio amore verso Cristo.
È lo stesso Iscariota, attraverso la penna di Doninelli, ad ammettere di dubitare fortemente della divinità di colui che, dall’inizio alla fine del romanzo, chiama “il Nazareno”.
L’autore si cimenta quindi in una coraggiosa “apologia di Giuda”, una sorta di arringa difensiva del traditore, raccontando, passo dopo passo, ogni momento della sua amicizia con Gesù di Nazareth, dal primo incontro lungo il lago di Genesareth, avvenuto “solo per curiosità” da parte dell’apostolo, fino alla tragedia finale.
Nel Nazareno, l’Iscariota percepisce la dimensione di un suo potenziale completamento umano ma, mano a mano che la predicazione procede, tra i due si allarga l’incomprensione: Giuda, infatti, rimane fondamentalmente figlio della cultura della Legge mosaica, secondo gli schemi trasmessigli dai farisei suoi contemporanei.
Tenterà, quindi, in modo fallimentare, di incasellare la proposta di Gesù in una tradizione ultraritualistica, cui associa una visione del mondo il cui principale criterio è quello economico (Giuda, secondo la tradizione, è infatti presentato come il tesoriere dei Dodici): da qui la sua riprovazione per lo spreco d’olio di nardo che la Maddalena, dopo il pentimento, sparge ai piedi del Nazareno.
Pur non amando la casta sacerdotale, in buona fede, sceglie di consegnare l’Amico alle autorità. Giuda, infatti, crede “che la Legge e i suoi profeti avrebbero alla fine prevalso sui sentimenti e sulla sete di potere che non fa difetto nemmeno in un uomo di Dio” ma si sbaglia.
Vuole salvare Gesù da se stesso e per farlo arriva a pensare che un “processo regolare” – di cui dà per scontata la sospensione della condanna – sia il male minore rispetto all’“ira inconsulta di una folla aizzata ad arte”.
È proprio nella tragica scelta del suicidio, che il traditore non rinnega la sua amicizia per il Tradito: “Perciò mi piace pensare che un giorno […] io e lui potremo rivederci e abbracciarci di nuovo, e io – forse – potrò risarcirlo dell’amicizia che gli sottrassi mentre moriva tra le grida di scherno”.
Nato da un’idea teatrale, il romanzo di Doninelli – pur non essendo affatto, per ammissione dell’autore, un “romanzo storico” – offre comunque una buona ricostruzione dell’epoca di Gesù di Nazareth e della mentalità dei suoi contemporanei, consegnando al lettore un Cristo profondamente umano e spogliato della sua divinità, come rivela, ad esempio, la malinconia che prova, persino dopo la resurrezione di Lazzaro.
Da parte sua, Giuda viene a perdere l’aura di oscurità demoniaca che emerge dai Vangeli e ne esce profondamente attualizzato: in lui è possibile scorgere il dramma dell’uomo post-moderno, con il suo desiderio di elevazione spirituale, troppo spesso soffocato dai gangli del pragmatismo e degli idoli.