Chi ama si prende cura delle sofferenze del "fratello"

Commento al Vangelo della XXIII domenica del tempo ordinario. Anno A

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Come stanno le nostre parrocchie? Come camminano le nostre comunità? La liturgia di questa domenica è come un “tagliando” per verificare le loro condizioni; è necessario farlo di tanto in tanto perché una carrozzeria senza ammaccature potrebbe nascondere danni gravi e pericolosi al motore.

Allo stesso modo, una comunità con i suoi lettori, i cantori, le mamme catechiste, i ministranti, i volontari della caritas, i campetti del minibasket e l’oratorio, guidata magari da un prete molto dinamico e pieno di iniziative, potrebbe nascondere un cancro terribile.

Vediamo allora, alla luce della Parola, come stiamo messi. Il motore di una comunità è l’amore, quello che appare quando ci si prende cura gli uni degli altri perché si ha a cuore il loro bene, gratuitamente. Non quella poltiglia nevrotica e sempre in agitazione per foraggiare la propria carne che sono i rimproveri e le correzioni che facciamo agli altri.

Non è difficile sbattere in faccia all’altro il suo peccato, anzi. E neanche postarlo sui social-networks o “dirlo all’assemblea”. Ma questo non ha nulla a che vedere con l’amore. E’ piuttosto un giudizio covato da tempo, l’esplosione di un efferato senso di giustizia che polverizza l’altro per affermare se stessi.

Un bravo meccanico però si accorge subito di come gira un motore, gli basta accenderlo e ascoltarlo: se è a punto suona come una “sinfonia”, il termine greco originale reso con “accordano” riferito ai “due” che pregano: la “Chiesa” è un’orchestra composta da strumenti “accordati” tra loro nell’amore per eseguire la “sinfonia” capace di salvare il mondo.

Ecco, quando ci incontriamo per celebrare la liturgia, per ascoltare la Parola di Dio, o per decidere qualcosa, siamo “accordati”? Con i miei “fratelli” o solo dei conoscenti? E per che chiedere cosa? Qui si tocca il cuore di una comunità, ciò che la muove e la tiene insieme. 

E qui iniziano i problemi, perché, in fondo, anche se ci stringiamo la mano durante il segno della pace, nel nostro cuore risuona la domanda del fariseo che voleva giustificarsi davanti a Gesù: “chi è il mio prossimo? Ovvero, chi è il mio fratello?”.

Ditemi se nelle nostre parrocchie ci si conosce davvero o se, invece, l’unico che si sa gli uni degli altri è frutto del pettegolezzo, delle “chiacchiere” di cui parla spesso Papa Francesco…

Un racconto degli hassidin ci aiuta a comprendere. Un rabbino racconta che ha imparato il significato di Ama il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18) da due contadini che aveva sentito parlare: “Boris mi ami tu?” e l’altro dice “Ivan certo che ti voglio bene”; il primo riprende “Boris sai cosa mi addolora?” e l’altro risponde “Ivan come posso sapere cio che ti addolora?”; il primo riprende “Boris se non sai cosa mi addolora come puoi dire che mi ami veramente?”.

Un cristiano sa per esperienza che la sofferenza viene sempre dal peccato; per questo ogni altro è per lui un “fratello” e non può restare indifferente, ma “và e lo ammonisce”. La carità di Cristo lo spinge per “guadagnarlo” a Lui e alla sua misericordia rigenerante.

Ma forse dobbiamo ammettere che non amiamo nessuno perché nessuno è nostro “fratello”. Non abbiamo mai guardato ai loro peccati come al veleno che ne sta uccidendo l’anima. Pensaci, ti sei mai preoccupato che l’altro stia soffrendo perché sfugge alla volontà di Dio infilandosi nella morte? 

Di questo sta parlando Gesù. Non si scherza, è in gioco la vita del “fratello” e la missione della Chiesa. Essa è un segno del Cielo offerto al mondo, una testimonianza credibile che Cristo è risuscitato e ha vinto il peccato e la morte.

Ma se anche un solo suo membro cade in un peccato serio tutta la Chiesa ne rimane ferita: smette di essere un sacramento di salvezza, e si trasforma in uno scandalo per i piccoli schiavi del mondo.

Nella Chiesa, infatti, l’amore è effuso sui “fratelli” perché attraverso di essi raggiunga ogni uomo. Per questo, prendendosi cura delle sofferenze del “fratello” che è caduto in un peccato, i cristiani vedono in esse anche quelle di chi, legato a lui, resta privato della sua testimonianza per credere e salvarsi. 

Come è possibile allora accettare la superficialità nelle nostre parrocchie? Non ci rendiamo conto quale è la posta in gioco? Ma per superare l’indifferenza che frustra la missione della Chiesa occorre che in essa si impari innanzitutto a riconoscere nell’altro un “fratello”. 

E non è cosa di un giorno, un colpo di bacchetta magica e oplà, ecco la comunione e l’amore. E’ necessario aver sperimentato che Cristo è venuto a cercarmi, per “ammonirmi fra me e Lui solo”, con la predicazione e i sacramenti, specialmente la confessione, come ha fatto con Pietro, con Zaccheo e la Maddalena, con la prostituta e tanti altri. 

Che mi “dimostrato” il suo amore, secondo l’originale tradotto con “ammonire”, attraverso i pastori e i catechisti, la cui “parola” mi ha “testimoniato” la sua opera e la sua misericordia nella mia vita. Che mi ha condotto e accolto nella “Chiesa”, l'”assemblea” della comunità dove mi ha annunciato mille volte il perdono e la possibilità di vivere una vita nuova.

Occorre cioè un cammino serio di conversione fondato sulla Pasqua, l’iniziazione cristiana dove, nella liturgia e nell’ascolto, i “fratelli” “accordano” i cuori, le menti e le forze per chiedere a Dio la liberazione dalla schiavitù al peccato, nella certezza che “il Padre la concederà”. 

Un cristiano adulto nella fede, infatti, ha sperimentato che Cristo è risorto e vivo in una comunità che agisce “nel suo nome”, cioè nel suo potere sul peccato e la morte che ha dato a Pietro e alla Chiesa. Il potere di compiere nella storia di ogni uomo il suo Mistero Pasquale, ovvero di “slegare” dalle catene del demonio e di “legare” al Padre che è nei Cieli.

Per celebrare la Pasqua ogni ebreo doveva provvedere a togliere dalla casa qualsiasi residuo di lievito vecchio, considerato come l’immagine dell’istinto malvagio che cova nel cuore. Allo stesso modo, per compiere la propria missione, la Chiesa deve continuamente purificarsi, come ammoniva San Paolo: “togliete via il lievito vecchio per essere pasta nuova, perché Cristo nostra Pasqua è stato immolato, e voi siete siete azzimi”. 

E’ celebrare insieme la Pasqua, e solo questo, il motivo che spinge un cristiano nella libertà che il mondo non conosce. Quella di uscire da se stesso per “ammonire” il fratello, anche a costo di essere rifiutato e caricare i suoi peccati. 

Ogni passo che Gesù indica alla Chiesa per “guadagnare il fratello”, infatti, è l’attualizzazione nella storia di quello che ha fatto Lui nella sua Passione: per “guadagnare” ciascuno di noi, si è fatto peccato, è stato accusato nell’assemblea e alla fine è stato gettato fuori, a morire crocifisso, “come un pagano e un pubblicano”. Sulla Croce, infatti, Cristo ci ha “ammonito”, rivelandoci l’unica verità che compie l’esistenza.

Allo stesso modo vivono i cristiani la relazione con i “fratelli” che peccano: come il buon samaritano si chinano sulle loro ferite, le curano con la verità che smaschera il demonio responsabile di tanta sofferenza, e li affidano alla Chiesa, perché si prenda cura di loro. 

Per questo, a volte è necessaria la massima severità, che è il segno della più grande misericordia. La Chiesa sa che Dio ha creato l’uomo libero, anche di uccidere suo Figlio, come di indurirsi sino alla fine nel peccato.

Per amore di ogni “fratello” che si rifiuta ostinatamente di “ascoltare”, non c’è allora altra soluzione che lasciarlo libero di tornare a vivere come prima dell’incontro con Cristo: come “un pubblicano e un pagano”. 

Far finta di niente, in una falsa misericordia che scioglie la verità, sarebbe rendere vana la Croce di Cristo; sa
rebbe anche fare torto alla dignità del “fratello”, obbligandolo all’ipocrisia. 

Alleandosi con il peccato che rompe la comunione egli se ne è chiamato fuori. La verità, invece, e solo la verità delle conseguenze amare del peccato e dell’amore infinito di Dio può percuotere, alla lunga, il cuore più indurito.

Ma, come il padre del figlio prodigo, la Chiesa sa che questo fratello sarà sempre figlio del Padre celeste e fratello di Cristo; anche se “perduta”, farà comunque parte delle cento pecore che compongono il gregge. 

Considerare il “fratello” che “ha peccato” come un “pagano” e un “pubblicano”, significa allora innanzitutto amarlo come uno dei fratelli più “piccoli”, che hanno “i loro angeli”, ovvero i fratelli della comunità, che “guardano sempre il volto del Padre”, pregando con Cristo per la sua salvezza.

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Antonello Iapicca

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