«Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei cantici è stato donato a Israele, perché tutte le Scritture sono sante, ma il Cantico dei cantici è il Santo dei santi», così il rabbi Aqiva, uno dei grandi maestri del Talmud, difendeva la sacralità del Cantico di Salomone. È in un certo senso a lui – umanamente parlando – che va il credito per l’inclusione del Cantico dei cantici nel canone giudaico e di riflesso nel canone cristiano delle Scritture.
A Iamnia (Javneh), dinanzi ai rabbini sospettosi della sacralità del Cantico – dato il suo carattere particolare come «frammenti di un discorso amoroso», per prendere in prestito un titolo di Roland Barthes – rabbi Aqiva sosteneva che «nessuno in Israele ha mai contestato il Cantico».
Rimaniamo comunque davanti a un testo molto particolare in cui non viene pronunciato il nome di Dio se non una volta sola e in forma idiomatica (Ct 8,6). È un testo che ha avuto una ricchissima storia degli effetti e una strabiliante varietà di interpretazioni. Gli ebrei vi videro la celebrazione dell’amore tra Adonai e il popolo d’Israele. I cristiani, a partire da origene, vi leggevano l’amore tra Cristo e la Chiesa. Nella tradizione monastica, il Cantico sarà parte del linguaggio di meditazione e preghiera personale.
Il monopolio quasi totale della lettura allegorica verrà scosso dall’ascesa dell’esegesi storico-critica che porrà di nuovo il dilemma: cantico spirituale? O canto d’amore profano? Non sorprende in questo clima l’affermazione del teologo e martire luterano Dietrich Bonhoeffer: «Vorrei leggere il Cantico dei cantici come un cantico d’amore terreno. Probabilmente questa è la migliore interpretazione “cristologica”».
Nel libro Il più bel canto d’amore. Letture e riscritture del Cantico dei cantici, Enzo Bianchi raccoglie e presenta un’antologia di letture di «padri della chiesa, teologi, filosofi, scrittori, credenti ebrei e cristiani, non credenti contemporanei, per offrire un saggio delle diverse interpretazioni di questo canto sempre attuale, che diventa linguaggio spirituale o erotico in quanto lo assumono nelle loro storie personali».
Per assaggiare i contributi racchiusi nel volume, lasciamo la parola a Franz Rosenzweig che chiarisce che il senso profano e il senso sacro del Cantico non si escludono a vicenda, ma, anzi, si implicano e si necessitano:
«La metafora dell’amore attraversa, come metafora, l’intera rivelazione. Presso i profeti è la metafora sempre ricorrente. Ma deve essere ben più che una metafora. E tale è solo quando compare senza un “ciò significa”, quindi senza un rinvio a ciò di cui deve essere metafora. Non è sufficiente, dunque, che il rapporto di Dio con l’uomo venga raffigurato con la metafora del rapporto tra l’amante e l’amata; nella parola di Dio deve esserci immediatamente il rapporto dell’amante con l’amata, cioè il significante senz’alcun rimando al significato. E così lo troviamo nel Cantico dei cantici. In questa metafora non è più possibile vedere “soltanto una metafora”. Qui il lettore è posto, a quanto pare, di fronte all’alternativa tra l’accogliere il senso “puramente umano”, puramente sensuale (e certo allora finirà con il chiedersi per quale bizzarro errore queste pagine siano finite in mezzo alla parola di Dio) e il riconoscere che qui, proprio in questo senso puramente sensibile, direttamente e non “solo” metaforicamente si cela il significato più profondo.
[…]«Non benché, ma proprio perché il Cantico dei cantici era un canto d’amore “autentico”, vale a dire “profano”, proprio per questo era un autentico canto “spirituale” dell’amore di Dio per l’uomo. L’uomo ama poiché Dio ama e così come Dio ama. La sua anima umana è l’anima destata e amata da Dio».
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