di Padre Piero Gheddo

ROMA, venerdì, 3 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Il Beato padre Clemente Vismara (1897-1988), beatificato in Piazza Duomo a Milano il 26 giugno 2011, merita una biografia che racconti in modo documentato la sua avventurosa vita missionaria, per la quale i vescovi birmani lo definirono, quando compiva 60 anni di missione, “Il Patriarca della Birmania”. Sono stato il Postulatore della sua causa di canonizzazione e sono andato a trovarlo in Birmania nel 1983, aveva 86 anni ed era ancora parroco di Mong Pong. Spero di poter produrre, con l’aiuto di Dio, la  biografia del Beato Clemente che illustri in modo esauriente la sua vita avventurosa e soprattutto lo spirito missionario che l’animava.

In questi mesi sto leggendo e schedando le sue 2300 lettere e poi i suoi 700 articoli che abbiamo ricuperato, più le testimonianze dei 130 testimoni giurati al processo di beatificazione e altri documenti. Quanti testi trovo, che fanno riflettere, a volte anche commuovono. Ne trasmetto uno agli amici lettori che già conoscono il Beato Clemente.

Nato ad Agrate Brianza nel 1897, penultimo di sei fratelli e sorelle, orfano della mamma a cinque anni e del papà ad otto, entra nel seminario diocesano di Milano e, dopo quattro anni di militare e tre di trincea nella I° guerra mondiale (1916-1920), entra nel Pime, diventa sacerdote nel maggio 1923 e parte per la Birmania, dove viene mandato a fondare la missione di Monglin, ai confini con Laos e Thailandia, sei giorni a cavallo da Kengtung, dove c’era il capo missione padre Erminio Bonetta. Il quale lo accompagna a Monglin, rimane con lui quattro mesi e poi lo lascia solo, in un capannone di fango e paglia (all’inizio non aveva nemmeno una sedia), con alcuni orfani e un catechista in un ambiente pagano che lo rifiutava. Doveva lottare ogni giorno per procurarsi da mangiare, si adatta presto a cosa mangiano i suoi tribali akhà, lahu e shan: riso, qualche pesce di fiume, selvaggina di caccia e poi topi, cani, scimmie, erbe amare di foresta. La baracca di fango in cui vive dal 1924 al 1929 è piena di topi, insetti e animaletti fastidiosi e pericolosi e quando piove, Clemente dorme con l’ombrello aperto sul suo giaciglio perché piove dentro.

All’amico di guerra don Pietro Bertocchi racconta le fatiche di imparare quasi senza maestro la lingua shan, “ascoltando i ragazzi e prendendo appunti tutto il giorno. Qui non c’è movimento, non c’è rumore, non ci sono europei, ci sono solo pagani e monti”. E continua:“Sono felicissimo d’esser stato mandato qui, ora sta a me il farmi onore davanti a Dio, ché gli uomini qui non ci vedono neppure col cannocchiale. L’isolamento induce a meglio rientrare in se stessi ed a formarsi una vita interiore sufficiente a dar energia per poter lavorare con sacrificio ed abnegazione. E ai piedi di Gesù veramente si prova un contento ed un’energia che non credo in Italia si possa provare, perché circondati, anche senza volerlo, di comodi e facilitazioni che qui non si possono neppure immaginare. La mortificazione del corpo qui è naturale e la si deve fare anche per forza. Come sarebbe felice il mio stomaco se avesse tutti i giorni il pane, almeno un po’ per accompagnare la pietanza che bisogna che vada io a cuocermela. Più naturalmente qui ci si sente nelle mani del Signore che se mi facesse star male di salute non avrei chi mi curi tranne che Lui. Io non so come ringraziarlo della bella vocazione che mi ha dato, che mi stringe più fortemente a lui e mi fa sentire forte la necessità del suo aiuto spirituale e materiale”.

Dopo queste riflessioni spirituali, Clemente torna a raccontare la sua vita quotidiana e scrive: “Quanti topi ci sono qui in questa casa…. mentre ti scrivo scorrazzano e fan chiasso che è un piacere. Son grossi come gatti fanno paura. Ho il gatto ma ha paura lui pure. Mangiano ogni cosa, libri, legno, vestiti. Non lasciano dormire brutte bestiacce. E’ già difficile star al mondo, ci volevano anche questi. Pazienza!”.

Quando mi viene la tentazione di lamentarmi col Signore per qualche malanno o mancanza di qualcosa che vorrei avere, le sue lettere che ho sul tavolo mi richiamano alla vita missionaria che ha fatto il Beato Clemente Vismara, uno dei miei antenati nel Pime, e ringrazio il buon Dio per tutto quello che ogni giorno mi dà.