di Luca Marcolivio

CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 27 febbraio 2012 (ZENIT.org) – La tecnologia applicata al corpo umano è arrivata ad un livello di sviluppo tale da iniziare a prospettare seriamente la possibilità di “decostruire” l’uomo, andando oltre la sua stessa natura.

Una dissertazione sui rischi di questa deriva etico-scientifica è stata proposta sabato e domenica scorsi presso il Palazzo San Pio X, durante il congresso internazionale Ai confini dell’umano. La persona umana nell’epoca della rivoluzione biotecnologica, promosso dall’associazione Famiglia Domani.

Col 24-26), siamo tenuti, in un certo senso, ad assumere, identificandoci con il suo patire.

“Se noi abbiamo la comprensione del mistero della sofferenza, sapremo rispondere a quelli che dicono che questa vita è inutile o non ha senso e non permetteremo che nessuna vita sia sprecata o disprezzata. Ma, come dice Cristo, chi ha fatto questo al più piccolo o al più bisognoso lo ha fatto a me”, ha detto a Zenit il porporato americano.

“Senza questa visione che, in definitiva, è quanto la legge naturale e la retta ragione ci insegnano, il mondo diventa un teatro di violenza e morte”, ha aggiunto il cardinale Burke.
Hai poi preso la parola monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, che ha riflettuto sulla “portata profetica” della Humanae vitae.

L’enciclica promulgata da Paolo VI nel 1968 segna uno spartiacque nella storia del magistero, poiché giunge in un “momento delicatissimo della vita ecclesiale e sociale”, in cui era marcata, all’interno della Chiesa, la tentazione di abbandonare la concezione tradizionale del matrimonio e della famiglia.

Era egemone, in quegli anni, “un vero e proprio complesso di inferiorità nei confronti di quella tecnoscienza che tendeva a considerare famiglia e vita come oggetti di conoscenza scientifica e di manipolazione tecnologica”, ha osservato monsignor Negri.

La Humanae Vitae, in definitiva, metteva in guardia dalle degenerazioni che avrebbero caratterizzato gli anni futuri, in particolare la dissacrazione del rapporto uomo-donna, ridotto a “fatto biologico e sessuale, senza nessuna grandezza umana e ideale”, ha aggiunto il presule.

Le conseguenze disastrose della disobbedienza al magistero sui temi della vita sono state sottolineate da Mercedes Wilson, presidente dell’associazione Family for the Americas, la quale posto l’accento in particolare sulla diffusione delle malattie veneree e sul crollo demografico.

L’integralità del concetto di vita umana è stato illustrato da Rainer Beckmann, avvocato, magistrato e docente di medicina legale all’Università di Heidelberg. Essendo la persona umana “ben di più di un oggetto fisico” ma “un insieme di corpo e anima”, la fine della vita è determinata esclusivamente dalla separazione dei due principi.

Non è valido, pertanto, secondo Beckmann, il criterio della “morte cerebrale”, nella misura in cui l’essere umano non può essere identificato con la sola attività del cervello. Si può parlare di morte a tutti gli effetti esclusivamente quando “tutti gli organi vitali cessano di funzionare in modo irreversibile”, ha affermato il giurista tedesco.

L’ambiguità rappresentata dalla “morte cerebrale”, del resto, come sottolineato dal filosofo Joseph Seifert (Pontificia Università Cattolica del Cile), si presta a numerosi abusi nella pratica del trapianto di organi vitali.

Di carattere etico-giuridico sono state le considerazioni del professor Mario Palmaro, docente di filosofia del diritto all’Università Europea di Roma. Per ciò che riguarda l’aborto, Palmaro ha fatto notare come negli ultimi quarant’anni quasi tutti gli ordinamenti occidentali abbiano legalizzato una pratica che, in precedenza, era moralmente e giuridicamente condannata.

In Europa in particolare vi sono senza dubbio legislazioni più permissive e altre più restrittive sull’aborto ma nessuna di queste può esimersi dall’essere considerata “ingiusta”. Inoltre, ha aggiunto Palmaro, le legislazioni abortiste sono dense di “conseguenze antropologiche” e, indubbiamente, il loro mantenimento non può che contribuire all’assimilazione, a livello di massa, di una mentalità contro la vita.

Un aspetto del problema, che ormai è sempre meno tabù, è rappresentato dagli studi sulla sindrome post-aborto, illustrati dalla professoressa Claudia Navarini, docente di filosofia morale all’Università Europea di Roma.

Il mito ideologico della “autodeterminazione della donna” ha portato per molti anni a rimuovere le gravi conseguenze fisiche e psicologiche che si manifestano nelle donne che praticano l’aborto volontario.

Tuttavia è ormai evidente, dalla letteratura più recente, la fortissima incidenza di sindromi quali l’insonnia, la depressione, il calo di autostima, fino alle tendenze suicide tra le madri mancate, anche a molti anni di distanza dall’avvenuta interruzione di gravidanza.

Un’altra deriva antropologica odierna è quella relativa al gender, ovvero la gestione della condotta psico-sociale della propria sessualità, determinata non dalla natura ma dalla “libera scelta” della persona.

A proposito del gender, la professoressa Laura Palazzani, docente di filosofia del diritto alla LUMSSA, ha analizzato la questione come un prodotto del post-femminismo, di cui già si registrano conseguenze a livello di diritto internazionale, sulla base di una forzatura del principio di non discriminazione.

Questa “agenda” implica pressioni da parte delle lobby omosessualiste internazionali per la totale equiparazione dei diritti di gay ed etero: dal diritto ad un’educazione sessuale libera, al diritto alla contraccezione, fino al cambio anagrafico di identità sessuale e all’adozione di bambini da parte di coppie gay.

Le implicazioni esposte dalla professoressa Palazzani, sono un risvolto particolare di quello che, nel suo intervento, il professor Matteo D’Amico, dirigente e formatore dell’AESPI, ha definito un più generale “totalitarismo biotecnologico”, ovvero l’imposizione di una “religione secolare” e nichilista, fondata sullo strapotere della scienza sulla dignità dell’uomo e sui parametri antropologici della civiltà greco-romana e poi cristiana.

Considerazioni di carattere più schiettamente medico-scientifico, senza trascurare i risvolti etici, sono state apportate dal neurologo brasiliano Cicero Galli Coimbra (Università di San Paolo), dal neonatologo Paul Byrne (Università di Toledo, Ohio) e dal neuro-cardiologo John Andrew Armour (Università di Montreal).

Dopo la commovente testimonianza di Gianna Emanuela Molla, che ha raccontato la splendida parabola umana di sua madre, la santa Gianna Beretta Molla, che, malata di fibroma all’utero, morì dando alla luce la sua ultima figlia, ha chiuso il congresso il professor Roberto de Mattei, docente di storia del cristianesimo all’Università Europea di Roma e presidente della Fondazione Lepanto.

“L’uomo è una persona, titolare di diritti inalienabili, perché ha un’anima. E ha un’anima perché, a differenza di qualsiasi altro vivente, ha una natura razionale”, ha osservato de Mattei.
Lo storico ha poi sottolineato che a nulla giova enfatizzare la titolarità di diritti e il “personalismo”, nella misura in cui, “prima di essere una persona, l’uomo ha una natura”.

E se da un lato l’antropologia cristiana riconosce come naturale la composizione dell’uomo in corpo e anima, l’antropologia materialista appiattisce e riduce l’uomo “al suo sentire, cioè alla sua animalità”.

Apparentata a quest’ultima concezione è anche la già citata teoria del gender che sfida la sessualità naturale dell’essere umano, in realtà creato maschio o femmina, senza ambiguità alcuna.

[Ha collaborato H. Sergio Mora]