di Giuseppe C.M. Cassaro, S.D.B.
Professore di Teologia Dogmatica
e Vice Preside dell’Istituto Teologico S. Tommaso di Messina

ROMA, mercoledì, 15 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Israele, nella vitalità che la misericordia di Dio gli dona, sanandolo dalle sue infedeltà, possiede la bellezza dell’olivo verdeggiante (Os 14,7), e fonda la propria giustizia solo nella fedeltà di Dio alle sue promesse (Sal 52[53],10), nel suo affetto e nel suo cuore paterno che non dimentica l’alleanza di pace.

Questo olivo è il popolo che Dio si è scelto, la radice santa su cui sono innestate tutte le genti per mezzo della fede (Rm 11,11-24), ma solo in virtù della linfa vitale che gli deriva dalla radice vera dell’albero di vita che è Cristo stesso (Ap 22,16; Is 11,10; Gv 15,4-5). Egli è la radice cresciuta in terra arida (Is 53,2), nata sulla roccia senza vita della nostra umanità perduta. In virtù dell’offerta che il Figlio fa di se stesso sulla croce sgorga il fiume vivificante, sulle cui sponde crescono gli alberi sempre verdi e ricchi di frutti (Ez 47,1-12; Ap 22,1-2). Egli è ancora il nuovo albero della vita, che viene restituito ad Adamo dopo la riconciliazione (Ap 2,7; 22,14): nel legno della sua croce rifiorisce la vita che il peccato aveva spento.

Dio stesso è la roccia sicura, difesa e gloria del suo popolo (Dt 32,4; 1Sam 2,2; Sal 18[19],3; 31[32],3; Is 26,4), una roccia viva che genera Israele (Dt 32,18), e che si spacca, si apre per far scaturire acqua di vita (Es 17,6; Ger 2,13; Gv 4,10). I discepoli di Gesù riconoscono che egli era la roccia che nel deserto dissetò Israele (1Cor 10,4), quella roccia spirituale che ancora oggi continua ad aprirsi per donare l’acqua viva dello Spirito, anzi per far sgorgare le sorgenti di quest’acqua nel cuore degli stessi credenti (Gv 7,38), che battezzati in lui, diventano per mezzo di lui tempio dello Spirito di Dio (Ez 36,26).

Cristo è la piccola pietra che solo in apparenza è insignificante (Dn 2,34-35), una pietruzza che “si stacca dall’alto”, senza intervento di mano d’uomo: è Dio stesso che la invia per l’uomo, per poter ricostruire tutto secondo il progetto di Dio (Mt 21,42; At 4,11; Ef 2,20): i costruttori infatti l’hanno scartata, ma Dio vuole che diventi basamento di costruzione per la casa nuova dell’umanità nuova, contro la quale nessun attacco potrà portare distruzione (Mt 7,24-25). In lui anche i discepoli sono resi pietre vive, per la costruzione del tempio santo dove Dio desidera abitare in mezzo agli uomini (1Pt 2,4-5).

Questo breve e sintetico excursus che analizza la simbologia artistica in riferimento a quella biblica mostra come il messaggio sotteso dal linguaggio del Fonte battesimale utilizzato nella Cappella Sistina è duplice: ci parla di Dio e dell’uomo, parte sempre dal creatore per giungere alla creatura umana.

Ci dice come la realtà dell’Incarnazione e della Pasqua di Cristo non sia una semplice rivelazione di qualcosa di misterioso, ma una rivelazione misterica, invita cioè gli uomini a entrare dentro il mistero, a prendere parte da protagonisti alla storia della salvezza. In quel fonte comincia una vita nuova, che non avrà fine, e che segnerà per sempre la comunione tra Dio e l’uomo, in un’alleanza sponsale che nessuna forza potrà mai spezzare. Attraverso quel grembo la creatura umana accede nell’intimità di Dio e diventa come lui, partecipando al suo dono di vita, assumendo in sé il suo essere, e transumanando.

Il fonte trova collocazione nell’ambito delle celebrazioni che si svolgono nella Cappella Sistina, che con la sua sinfonia di affreschi fa da sottofondo alla liturgia celebrata dal Santo Padre. Se non si dà una corrispondenza sincronica o puntuale della triplice simbologia nel contesto iconografico della Cappella, molti rimandi allusivi ci consentono di trovare una sorprendente consonanza che illumina il linguaggio artistico.

Se alcuni particolari della creazione di Eva e del peccato originale, che si trovano nella volta, ci possono mettere sulle tracce dell’albero della vita secondo un’interpretazione tutta michelangiolesca, tuttavia è la simbologia solare che risalta immediatamente, ed anzi è la più evidente per la sua collocazione proprio sopra lo spazio celebrativo dell’altare: Cristo possente, attorno al quale, nel giudizio universale, si muovono tutti gli altri personaggi. È lui il centro della storia, quel sole di giustizia che sorge dall’alto, e che Michelangelo ha rappresentato nella sua aurora definitiva, la luce dorata che lo incornicia alle spalle, e che abbraccia anche Maria seduta alla sua destra.

Ci chiediamo se sia legittima la pretesa di aggiungere una nuova componente artistica in un contesto di così alto valore come la Cappella Sistina. La risposta è ancora una volta banale, ma non per questo meno vera: in momenti diversi della storia ed anche con contributi differenti la Cappella è stata arricchita.

Anche la mano degli artisti del nostro tempo ha diritto a partecipare a questa sinfonia che comprende consonanze e dissonanze di mirabile bellezza: «La Chiesa non ha mai avuto come proprio uno stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura.

Anche l’arte del nostro tempo e di tutti i popoli e paesi abbia nella Chiesa libertà di espressione» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 123; cfr. Ordinamento Generale del Messale Romano, 3a ed., 289; Caeremoniale Episcoporum, 37). Nel suo contributo, che per certi versi ha anche il pregio di mantenersi umile, al contesto liturgico e artistico, il fonte parla il linguaggio della fede, quello della bellezza comprensibile e ricca di dignità, e con la sua originalità, concorre alla composizione del momento celebrativo senza sminuire, anzi esaltandola attraverso i riflessi, lo spessore della simbologia tradizionale che gli sta intorno.

Pare proprio che teologia ed arte possano tornare a dialogare.

[La prima parte è stata pubblicata ieri, martedì 14 febbraio: http://www.zenit.org/article-29565?l=italian]