ROMA, domenica, 5 febbraio 2012 (ZENIT.org) – Nonostante la recente successione dinastica a Pyongyang, la Corea del Nord rimane un territorio chiuso all’attività missionaria. Questo non dovrebbe però impedire l’evangelizzazione del Nord stalinista – soprannominato “il Paese eremita” – a partire dalla testimonianza dei transfughi nordcoreani. Secondo Eglises d’Asie (3 febbraio), questo è in sintesi il messaggio lanciato durante un simposio svoltosi nei giorni scorsi nella capitale sudcoreana Seoul sotto l’egida del Future Pastoral Institute.
Il direttore dell’Istituto, padre Norbert Cha Dong-yeob, ha riunito vari cattolici che lavorano per la missione nella Corea del Nord. Secondo padre Dong-yeob, sacerdote cattolico della diocesi di Incheon, è opportuno concentrarsi sulla missione presso i transfughi nordcoreani che si sono stabiliti nella Corea del Sud, vista l’impossibilità di condurre attività missionarie nel Nord e il fatto che nonostante la morte di Kim Jong-il e l’ascesa al potere del figlio terzogenito, Kim Jong-un, nulla permette di predire una prossima riunificazione delle due Coree.
Fino agli anni ‘90, gli arrivi di rifugiati nordcoreani nella Corea del Sud erano rarissimi e la loro integrazione nella società sudcoreana era, secondo Eglises d’Asie, una questione “marginale”. Oggi, con l’aumento del numero di transfughi registrato nel corso degli ultimi 15 anni, la loro presenza è diventata invece “significativa”. Sarebbero ormai circa 20.000 e anche se il governo di Seoul continua ad accoglierli e a facilitare la loro integrazione, molti non riescono ad abituarsi alle nuove condizioni di vita.
Da studi recenti emerge che una proporzione significativa di questi transfughi sono cristiani. Secondo un sondaggio del 2003, ben il 70% ha una “credenza religiosa”, di cui tre quarti si sono dichiarati cristiani.
Secondo il sito delle Missioni Straniere di Parigi, la cifra non sorprende. Le reti di sostegno per fuggire verso la Corea del Sud sono spesso guidate da cristiani, di norma da protestanti evangelici sudcoreani o coreano-statunitensi. Messi in contatto con i missionari cristiani durante il loro pericoloso viaggio attraverso la Cina e un lungo periplo in Asia, una volta installati nella Corea del Sud i rifugiati continuano a frequentare gli ambienti cristiani.
Consapevole di questo, il governo sudcoreano ci bada che a Hanawon, cioè “la casa dell’unione” attraverso la quale passano tutti i transfughi al loro arrivo in Corea del Sud, una sezione intera sia dedicata all’ “educazione religiosa”. Una volta usciti da Hanawon, i rifugiati nordcoreani trovano una miriade di comunità protestanti pronte ad aiutarli finanziariamente e materialmente.
Tuttavia, i critici osservano che l’aiuto non è sempre disinteressato. Kang Chul-ho, un rifugiato che ha fondato la sua propria comunità – la Chiesa dell’Unificazione e della Pace – avverte che gli aiuti hanno portato alcuni nordcoreani a ridurre le chiese a mere fonti di assistenza finanziaria. Chul-ho ha raccontato di aver ricevuto telefonate di rifugiati che chiedono quanti soldi riceve un nordcoreano se aderisce alla sua chiesa. Inoltre, alcuni rifugiati smettono di frequentare una Chiesa se questa interrompe il suo sostegno finanziario, mentre altri aderiscono a varie Chiese per moltiplicare gli aiuti che ricevono.
Altre Chiese invece hanno allontanato in modo definitivo i rifugiati dalla religione, chiedendo loro una professione di fede o una testimonianza della loro vita passata. Questo tipo di approccio ricorda infatti la loro esperienza vissuta al Nord, con il suo culto obbligatorio della dinastia dei Kim, così ha osservato Chul-ho.
Nella Chiesa cattolica – hanno affermato i partecipanti al simposio del 1° febbraio – il lavoro con i rifugiati nordcoreani rispetta più le persone. L’evangelizzazione dei transfughi – hanno affermato – può “indirettamente” aver un impatto al Nord dal momento che, nel caso di una prossima riunificazione della penisola coreana, i rifugiati potranno fungere da “relè” presso la popolazione nordcoreana.
Suor Lim Sun-yun, direttrice del Centro per i rifugiati nord-coreani della diocesi di Incheon, ha chiesto però prudenza e gradualità nel fare proposte ai rifugiati (come lo studio della Bibbia e il catechismo). Ma se i nordcoreani dimostrano il desiderio di voler andare oltre, nulla impedisce di condurli fino al battesimo, così ha detto la religiosa.
Da parte sua, Nam Dong-jin, vice presidente del Comitato per la riconciliazione in Corea – una struttura che dipende dalla diocesi di Incheon – ha raccontato che, con una dozzina di parrocchiani hanno formato dei gruppi di preghiera, alle cui sessioni vengono invitati dei transfughi nordcoreani. Un altro programma, chiamato “home-stay” e già da anni operativo, è molto popolare: una volta l’anno, famiglie sud-coreane ospitano per alcuni giorni rifugiati nordcoreani. Questi incontri permettono scambi più profondi, ha detto Nam Dong-jin,il quale ha aggiunto che ad Incheon tre profughi nordcoreani hanno chiesto di essere formati per l’evangelizzazione.
Secondo un missionario straniero che lavora da molti anni nella Corea del Sud, nonostante tutte le precauzioni l’azione nei confronti dei transfughi non è sempre libera da ambiguità. Una comunità di suore, che accoglie ragazze profughe tra i 15 e i 20 anni, ne ha ammesso due al battesimo dopo solo quattro mesi di catecumenato e mentre erano ancora ospiti della comunità religiosa. “Una tale fretta probabilmente non era necessaria”, ha dichiarato.