Il Nicaragua e l'America Cristiana

Un Paese al centro della geografia e della storia delle Americhe

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Il Papa ha inviato a Managua, nel Nicaragua, il cardinale Nicolàs de Jesùs Lopez Rodriguez, Arcivescovo di Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana, per rappresentarlo nelle cerimonie per i centenario dell’Arcidiocesi della Capitale di quella Nazione dell’America Centrale. L’Arcivescovo di Santo Domingo scrive le sue lettere su di una carta intestata al “Primate delle Americhe”, perché la sua fu la prima Diocesi istituita nel Nuovo Mondo.

La seconda, già sulla terra ferma, fu Leòn, nel Nicaragua, fondata dal conquistatore Pedro Arias Davila, originario di Granada come Pedro Gonzales de Mendoza, che a sua volta eresse Buenos Aires, la città di origine del Papa.

Il territorio della Diocesi di Leòn era in origine immenso, comprendendo tutto il Nicaragua e tutto il Costa Rica: la città coloniale dalle infinite chiese, la città dove la comunità indigena di Subtiava conserva – presso il luogo in cui l’ultimo cacicco venne impiccato ad un albero di tamarindo – la propria cattedrale di legno, contrapposta a quella di pietra degli Spagnoli, la gloriosa sede universitaria cui si giungeva da tutto il Capitanato dell’America Centrale per studiare,  perse dapprima la propria primazia sul Costa Rica e poi, proprio cento anni fa, smise di essere la sede dell’Arcivescovo del Nicaragua: era il tempo in cui il grande Rubèn Dario vi agonizzava, assistito dalla moglie, Rosrio Murillo, e dove l’ultimo Arcivescovo del Nicaragua, Monsignor Simeòn Pereira Castellòn impazziva di dolore per non essere più il Primate, e vaneggiava nella tarda età degli angeli cantati del grande poeta.

Managua, il villaggio di pescatori sul lago Xolotàn, luogo di confine e di perenne scontro tra le due tribù in cui si divideva il popolo Nahuatl, eretta a Capitale perché il governo non fosse sottoposto né agli uni né agli altri dopo che le interminabili guerre civili tra liberali di Leòn e conservatori di Granada avevano perpetuato l’antico conflitto etnico, aveva ormai preso in mano il destino del Paese.

Da allora, il capo religioso del Nicaragua, il vero etnarca della sua gente, sarebbe stato l’Arcivescovo della nuova Diocesi, pur priva all’inizio di una Cattedrale, che venne edificata proprio sulle rive del lago per finire distrutta nel terremoto del 1972 e poi ricostruita altrove, dov’è tutt’ora, con le offerte dei Nicaraguensi emigrati all’estero.

Il primo grande Arcivescovo di Managua, che con il suo magistero diede una tradizione ad una sede diocesana, ma si può dire anche ad una città che non ne aveva ancora nessuna, fu Monsignor Lezcano, uomo in odore di santità, al punto che fino a qualche anno fa si veneravano ancora gli anziani suoi compagni di studi ed amici personali.

E poi venne il Cardinale Miguel Obando y Bravo, l’indio nato in un villaggio di case di fango, paese di cercatori d’oro dove mai la polizia, per non dire lo Stato, osò penetrare, chiamato “La Libertad” nel senso di licenza, perché l’unica legge rispettata era quella di Dio.

Prima di lui, nessun centroamericano era mai divenuto Cardinale: anche questa una eredità della frammentazione succeduta all’Indipendenza, che non aveva saputo mantenere nemmeno l’integrità del Capitanato spagnolo del Guatemala.

Prima c’era stato il cardinale Mario Casariego, Arcivescovo di Città del Guatemala, ,ma in realtà era uno spagnolo andato in missione in quelle terre. Se il Papa latinoamericano fosse venuto una generazione prima, sarebbe stato Obando a divenire Vescovo di Roma. Tra tutti i Confratelli del Continente, gli era toccato vivere l’esperienza di una guerra civile. Quando da Matagalpa, la sua prima sede, fu chiamato a Managua, era il più giovane dei Vescovi del Paese.

La notizia della nomina lo colse mentre visitava i villaggi del Nord, a cavallo della sua mula, come era solito viaggiare, dato che non c’erano strade, e così fu l’ultimo a saperlo: allora non c’erano né telefoni, né tanto meno telefonini. Giunto in città, la gente gli faceva ala per applaudirlo. Gli si avvicinò un uomo, che disse: “Oggi lei ha avuto la sua Domenica delle Palme; avrà molti Venerdì Santi”.

I primi anni furono di mediazioni, ogni volta che venivano presi degli ostaggi civili, in un continuo accorrere dove i diritti dell’uomo erano minacciati. Fu allora che maturò il prestigio di Obando, favorevole al cambio di regime ma conscio del pericolo totalitario portato con sé dall’ispirazione marxista della insorgenza, come anche dal sostegno interessato di Cuba.

Il momento decisivo venne esattamente un mese prima del fatidico 19 luglio del 1979, quando l’Organizzazione degli Stati Americani si riunì per decidere sul Nicaragua: l’orientamento unanime era per l’uscita dalla dittatura, ma restava l’incognita rappresentata dal nuovo governo. Obando, cui i Paesi stranieri, e soprattutto gli Stati Uniti, si rivolsero per un parere che sarebbe risultato decisivo, garantì sull’esito pluralista della Rivoluzione. Infinite volte, gli esponenti della destra gli rinfacciarono quella indicazione, quella scelta.

Il Cardinale ammise di essersi sbagliato sugli orientamenti dei Sandinisti, che dominavano la ribellione armata, ma la verità – per chi ha conosciuto l’Arcivescovo – risultava più complessa: la storia futura del suo Paese era come una gravidanza, che doveva compiersi, partorendo un nuovo Nicaragua; poi, col tempo e con lo sforzo delle generazioni, si sarebbe potuto e dovuto correggere le pecche insite nella sua origine. In quel momento, tuttavia, non si poteva negare al popolo di cogliere il frutto di uno sforzo, di un sacrificio collettivo.

Vennero gli errori del nuovo regime, teso a imitare pedissequamente l’esperienza comunista, anche in quegli aspetti peggiori – come la persecuzione antireligiosa – che all’epoca erano già evidenti nell’esperienza del “socialismo reale”.

E di nuovo, ogni volta che tornava a spalancarsi l’abisso della guerra civile, spettava al Cardinale mediare: un compito che assolse facendosi forza della sua cultura (si era laureato a Torino, quando ancora l’Ateneo dei Salesiani, ai quali apparteneva, non si era trasferito a Roma, parlava volentieri in italiano e gli piaceva citare Dante Alighieri), ma più ancora della sua esperienza, del suo prestigio di  sacerdote (Somoza aveva mandato la segretaria a tentare di sedurlo, ma senza esito), e soprattutto di una sagacia tipicamente indigena e contadina: Obando non era soltanto il più colto e il più intelligente, era anche il più astuto, e la sua gente apprezzava questa qualità più di tutte le altre.

E venne finalmente l’ora in cui il Nicaragua, caduta la pretesa di trasformarlo in una appendice di Cuba sul Continente, si inserì – sia pure faticosamente – nel grande processo di democratizzazione del Continente, nella conquista della “Seconda Indipendenza”.

Il merito principale, data la rozzezza ideologica la meschinità e la corruzione dei politici, è da attribuire ad una Chiesa prestigiosa, composta da Pastori tutti molto giovani (Obando ha come saltato una generazione, scegliendo dei Vescovi che potrebbero essere suoi nipoti), tanto colti quanto vicini al popolo,  riuniti intorno a lui a consulto ogni mese per giorni interi, nella sede dell’Università Cattolica, di cui – lasciato il governo dell’Arcidiocesi – il Cardinale è ancora il Rettore: un uomo di studi, che agli studi è tornato. Visitando Managua nel centenario dell’Arcidiocesi, il rappresentante del Papa vi vedrà come un concentrato della vicenda storica del Continente, e in particolare di quella specifica della Chiesa in America Latina.

La “Teologia del Popolo”, che non contraddice la “Teologia della Liberazione”, ma la trascende, in quanto trasferisce dalla classe all’intera compagine sociale il luogo in cui la verità della fede viene ripensata e rielaborata, valorizzando dunque la memoria collettiva rispetto all’astrazione ideologica, quel pensiero che il Papa latino
americano ha portato con sé nella sua nuova sede vescovile di Roma, se non è sorta sulle rive del Xolotlàn, certamente vi ha affrontato la prova storica più decisiva. Il piccolo, povero ma orgoglioso Paese che riceve l’inviato del Papa ha dunque molto da insegnare al Continente e a noi tutti.

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Alfonso Maria Bruno

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