Il 1° settembre sera, si è giocata a Roma la “partita interreligiosa per la pace” voluta da papa Francesco. Non si tratta del solito evento mondano, in cui persone importanti accettano di fare da “testimonial” per una raccolta di fondi. La lettura dell’evento si può compiere da tre punti di vista: quello delle religioni, quello del Sud e quello del Nord del mondo.
Per quanto riguarda i credenti, non essendo la partecipazione alla partita limitata né ai Cattolici, né ai Cristiani, bensì estesa ad ogni possibile fede, possiamo considerare che l’evento serve ad affermare l’egemonia della religione sulla politica. Già si è constatato che il fallimento delle grandi ideologie è stato determinato dalla loro pretesa di omologare il mondo, cancellando le differenze determinate da identità culturali troppo diverse tra loro.
Le diverse fedi hanno svolto un ruolo decisivo nel propiziare questo esito, in quanto ogni obiezione alle pretese totalitarie degli Stati trova un fondamento nella spiritualità e nella morale, che da un lato esaltano la responsabilità dell’individuo e dall’altro lo collegano ad un referente – quello religioso – irriducibile ad ogni controllo dell’autorità temporale. Le religioni costituiscono però anche un fattore costitutivo di ogni identità nazionale, specialmente per quei popoli il cui insediamento è posto sul confine tra civiltà diverse, e in questo caso la differenza di fede accentua la rivalità tra le nazioni: pensiamo al cattolicesimo dei Polacchi, contrapposto all’ortodossia dei Russi, o al Cristianesimo dei Greci, contrapposto all’Islamismo dei Turchi.
Bergoglio è diventato Papa proprio mentre il mondo, che aveva creduto di liberarsi dei conflitti con il tramonto delle ideologie, raccoglie i frutti amari e sanguinosi dei conflitti identitari. Il Pontefice proviene però da una realtà, quella dell’America Latina, in cui la religione, comune a tutta l’area collocata al Sud del Rio Grande, costituisce non un motivo di contrapposizione tra popoli vicini e tra Nazioni confinanti, bensì un fattore di coesione, che induce ad auspicare il ristabilimento dell’unità continentale.
Non basta però riunire chi è accomunato dalla stessa fede: al di là delle differenze confessionali, vi è una infatti motivazione comune tra tutti gli uomini che guardano verso la trascendenza, che cercano un rapporto con la Divinità. Ed allora si vede risorgere – grazie al Papa – l’aspirazione ecumenica, questa volta scevra da quelle strumentalizzazioni che certamente vi furono nel tempo della guerra fredda, quando vi era chi sperava nella caduta dei muri, ma vi era anche ci cercava pretesti per mantenerli e per giustificarli.
Quale può essere, però, la meta, l’esito concreto di questa aspirazione? La pace – il Papa ce lo ricorda sempre, e con ragione – è illusoria, o quanto meno precaria senza la giustizia. Il concetto di giustizia si è dunque dilatato fino ad una dimensione mondiale: la giustizia, infatti, si sostanzia da un lato nell’aspirazione dei popoli alla libertà e all’indipendenza, ma anche in un rapporto diverso tra la parte ricca e la parte povera del mondo.
E qui arriviamo al secondo tema: come l’evento di oggi viene percepito nel Meridione del mondo.
Chiunque frequenti i campi di gara dei più diversi sport, si accorge del fatto che oggi essi vedono prevalere, sia nel numero degli atleti, sia nel calcolo delle vittorie, uomini e donne espressi dai popoli giovani ed emergenti. Non soltanto nei campionati europei di calcio le grandi squadre sono composte da giocatori dell’America Latina, e dell’Africa, ma lo stesso avviene nella “Big League” del baseball americano, e nel campionato di pallacanestro della NBC.
Ed anche le Nazionali europee, da quella tedesca che ha vinto il Mondiale, a quella francese, a quella italiana (pensiamo a Balotelli) sono in gran parte composte da figli di immigrati: segno che la società è sempre più multietnica e multiculturale. In questa affermazione conseguita dal Sud del mondo si coglie anche il segno di un mutamento, lento ma inesorabile, del rapporto di forze con il Nord. E questo contribuisce ad accrescere l’orgoglio e l’autocoscienza della gente dei Paesi emergenti. In fondo, avviene sui campi di gioco qualcosa di simile a quanto è avvenuto nel Conclave, come ben sa Jorge Bergoglio, un appassionato di calcio uscito vincente dalla Cappella Sistina.
E che cosa dice a noi, vecchi Europei, lo spettacolo dell’Olimpico? Lo sport è una competizione con delle regole: se i popoli giovani vi prevalgono, è anche perché essi riescono a farsi valere nel loro rispetto, smentendo tante affermazioni razzistiche che li dipingono ancora come incapaci di assoggettarsi alle discipline collettive. Bisogna dunque superare finalmente questo atteggiamento, che purtroppo tanto spesso si manifesta negli stadi, ed anche nelle affermazioni di certi dirigenti.
Lo sport ha contribuito a fare del mondo il “villaggio globale” che è oggi. Un villaggio può essere luogo di invidie e di rancori meschini; può essere però anche luogo in cui si cementa la solidarietà collettiva. Questo è l’auspicio che ci sentiamo di formulare dopo la partita dell’Olimpico.