Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la 25ª Domenica del Tempo Ordinario – Anno A.
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Rito Romano – XXV Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 21 settembre 2014
Is 55,6-9; Sal 144; Fil 1,20c-27a; Mt 20,1-16.
Rito Ambrosiano – IV Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is 63,19b-64,10; Sal 76; Eb 9,1-12; Gv 6,24-35
1) Un’apparente ingiustizia.
Con la parabola del padrone della vigna che a diverse ore del giorno chiama operai a lavorare nella sua vigna e che la sera dà a tutti la stessa paga, un denaro1, suscitando la protesta di quelli della prima ora, Gesù ci aiuta ad entrare nella logica di Dio il cui modo di pensare è davvero differente dal nostro: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri,le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore” (Is 55, 8)2.
Questa parabola è fin dall’inizio consolante perché ci assicura: l’umanità è la vigna, la passione, il campo preferito di Dio, che se ne occupa con cura uscendo per ben cinque volte3 a cercare operai.
Il punto critico del racconto risiede nel momento della paga: Dio, il Signore della vigna comincia dagli ultimi, gli operai dell’undicesima ora, e a chi ha lavorato un’ora sola dà un salario uguale a quello concordato con coloro che avevano sudato per dodici ore.
Gli operai assunti per primi, invece di essere contenti di aver lavorato per un Padrone buono, si dispiacciono di questa apparente ingiustizia, che invece è una più generosa giustizia. In effetti Lui dà a tutti quanto ha promesso, ma riconosce a chi è arrivato ultimo, ma che ha lavorato con eguale speranza, il diritto di godere, come gli altri, di quel Regno per il quale ha lavorato fino al tramonto.
Se il primo insegnamento della parabola è quello di ricordare che Dio si occupa con sollecitudine dell’umanità simboleggiata dalla vigna, il secondo è che l’essere chiamati a questa collaborazione è già la prima ricompensa: poter lavorare nella vigna del Signore, mettersi al suo servizio, collaborare alla sua opera, costituisce di per sé un premio inestimabile, che ripaga di ogni fatica. Certo, questo insegnamento è capito unicamente da chi ama il Signore e il suo Regno. Chi invece vi lavora solamente per il suo interesse non si accorgerà mai del valore di questo grandissimo tesoro.
Il denaro di cui parla la parabola non è tanto la moneta che permette di vivere per un giorno, è Dio stesso che si dona per farci vivere nel giorno senza fine. Dio non può donare meno che tutto, agendo con giustizia e carità, che solo per noi uomini sono due realtà differenti. Noi uomini distinguiamo attentamente un atto giusto da un atto d’amore. Giusto per noi è “ciò che è all’altro dovuto”, mentre misericordioso è ciò che è donato per bontà. E una cosa sembra escludere l’altra. Ma per Dio non è così: in Lui giustizia e carità coincidono; non c’è un’azione giusta che non sia anche atto di misericordia e di perdono e, nello stesso tempo, non c’è un’azione misericordiosa che non sia perfettamente giusta.
E’ davvero lontana la nostra logica da quella di Dio dalla nostra. E’ davvero diverso dal nostro il modo di agire di Dio, che ci invita a cogliere e osservare il vero spirito della legge, per darle pieno compimento nell’amore verso chi è nel bisogno. “Pieno compimento della legge è l’amore”, scrive san Paolo (Rm 13,10): la nostra giustizia sarà tanto più perfetta quanto più sarà animata dall’amore per Dio e per i fratelli.
2) La vocazione a lavorare nella vigna di Dio.
Con il pretesto di affermare il nostro umano e limitato concetto di giustizia rischiamo di contestare la bontà e la misericordia di Dio. Rischiamo di essere invidiosi perché egli è buono. Se ripensiamo alla parabola del Figlio prodigo vediamo che accade qualcosa di simile quando il Padre misericordioso accoglie a braccia aperte il figlio scapestrato, che ha dissipato nel peggiore dei modi tutta l’eredità che aveva preteso, ed organizza per lui una grande festa, che però suscita l’indignazione e l’invidia del fratello maggiore. Anche questo figlio si ritiene ingiustamente vittima di un’evidente, ma in realtà apparente, ingiustizia.
Dio nella sua infinita bontà dona se stesso e tutti i suoi beni non in modo arbitrario, ma secondo la logica del suo amore infinito. Lui invita, dà la vocazione a tutti e se i primi hanno risposto con piena disponibilità e sincero amore al suo invito, questi hanno da più tempo la gioia di lavorare per Dio.
Penso, dunque, che il tema profondo della parabola degli operai chiamati a lavorare nella vigna sia la “salvezza”, che è un dono che Dio riserva a tutti a larghe mani e che ciascuno può accogliere anche all’ultima ora. A questo riguardo, viene in mente il commovente episodio, narrato dall’evangelista Luca, sul “buon ladrone” crocifisso accanto a Gesù sul Golgota. L’invito si è manifestato come iniziativa misericordiosa di Dio a lui che spirando diceva: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Dalla bocca del Redentore, condannato alla morte in croce uscì la vocazione per lui: “In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,42-43).
Per annunciare il Vangelo, Gesù Cristo non ha usato il criterio del merito o della reciprocità: ha donato e perdonato. Non ha donato qualcosa, ma ha offerto se stesso. Lui, che aveva lodato la vedova che aveva donato tutto quanto aveva per vivere (cfr Lc 21, 4), ha donato tutto quanto era, la Sua vita, perché di essa l’intera umanità vivesse.
Per annunciare il Vangelo, noi dobbiamo rispondere umilmente ma prontamente alla vocazione del Signore, che ci invita ad essere operai operosi nella Sua vigna.
Subito sorge la domanda: “Come?”. Se coltiviamo il seme della fede, mediante la partecipazione ai sacramenti, saremo in grado di dedicare la nostra esistenza alla missione, a cui Cristo chiama tutti noi, testimoniando con la vita che la salvezza non è questione di interessi economici, né scaturisce da un rapporto fra datore di lavoro e dipendente. Questa collaborazione si attua a partire dalla sola, gratuita benevolenza di Dio, il quale non usa il criterio del “do ut des” (=ti do perché tu mi dia), ma del “do ut es”, cioè “ti do perché tu sia”.
Tutti noi cristiani dobbiamo usare questo metodo di Cristo e di una vita donata a Dio senza calcolo e senza misura ne sono una particolare testimonianza le Vergini consacrate nel mondo. Con l’offerta di se stesse a Cristo mostrano che la vigna non è solo il popolo di Dio ma è Cristo stesso, a cui aderire come tralci alla vite. Ripetiamoci spesso queste parole di Gesù: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo (…). Rimanete in me e io in voi” (Gv 15, 1-4). Queste semplici parole ci rivelano la comunione misteriosa che lega in unità il Signore e i discepoli, Cristo e i battezzati.
Queste donne vivendo unite a Cristo ed ai fratelli mostrano una comunione viva e vivificante, per la quale i cristiani non appartengono a se stessi ma sono di Cristo, come i tralci sono della vite.
Ma queste consacrate sono testimoni “di un modo diverso di fare, di agire, di vivere! E’ possibile vivere diversamente in questo mondo. Stiamo parlando di uno sguardo escatologico, dei valori del Regno incarnati qui, su questa terra. Si tratta di lasciare tutto per seguire il Signore. No, non voglio dire ‘radicale’. La radicalità non è solamente dei re
ligiosi: è richiesta a tutti. Ma i religiosi seguono il Signore, in modo profetico. Io mi attendo da voi questa testimonianza. I religiosi devono essere uomini e donne capaci di svegliare il mondo” (Papa Francesco).Le consacrate sono donne che con la profezia della loro vita annunciano lo spirito del vangelo. Ed è perché la loro vita sia sempre una profezia che, stendendo le mani su di loro, il Vescovo prega: “Accorda, Signore, il tuo sostegno e la tua protezione a quelle che stanno davanti a Te e che attendono dalla loro consacrazione un aumento di speranza e di forza, su di loro (Rituale di Consacrazione delle Vergini, n. 64).
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NOTE
1 Un denaro era ciò che era sufficiente per vivere una giornata ad una famiglia. Allora il padrone non pensa solamente ai lavoratori, ma anche a quelli che hanno a casa. Sa che se un uomo non lavora una giornata, tutta la famiglia non mangia.
Se questi che hanno lavorato un’ora ricevono tanto quanto era stato pattuito con i primi lavoratori, quelli delle sei del mattino, che hanno lavorato undici ore in più, per una giornata intera, che hanno sopportato il peso della giornata e la calura, si aspettano almeno tre volte tanto. Ma quando questi vedono che sono retribuiti con un denaro (d’altronde era stato concordato così), sfogano la loro delusione e il loro malumore, perché erano certi “che avrebbero ricevuto di più” (Mt 20,10), e ritengono il padrone ingiusto.
Infatti, dice il Vangelo, mormorano (Mt 20,11): “Ma come? Questi che hanno lavorato un’ora sola li tratti come noi?”. Osservate che mormorano: non gli dicono la loro insoddisfazione apertamente, parlano al di sotto, alle spalle. E’ tipico di chi mormora, di chi “dietro le spalle” ha sempre da dire.
Gesù prende di mira il capoccia che urla e protesta di più e gli risponde: “Amico, (lett. “caro mio, collega” con tono bonario e di rimprovero) non avevamo convenuto questo?”. “Non è quello che avevamo stabilito?”. “Sì!”. “Ti tolgo qualcosa di ciò che si era detto?”: “No!”. “E allora, cosa vuoi da me? Prendi ciò che è tuo e vattene. Non posso delle mie cose fare quello che voglio?”. Ma è stato ingiusto il padrone o è stato generoso? Il padrone in realtà non è ingiusto (quel che aveva pattuito è quel che è stato dato), ma generoso. Il padrone non toglie nulla a nessuno, anzi.
2 Prima lettura della Messa di questa Domenica, mentre la parabola degli operai chiamati alla vigna ne è il Vangelo.
3 Le ore del giorno chiamate nell’antico modo (ora terza, sesta, nona…) fanno pensare anche alla preghiera della Chiesa distribuita nel corso della giornata. Anche questa è una chiamata quotidiana; anche questa è un’opera necessaria e capace di dissodare la vigna perché i frutti maturino.