Puglisi e i nuovi martiri della fede

Nel suo editoriale su “La Gazzetta del Sud” di oggi, il vescovo di Catanzaro-Squillace riflette sulla testimonianza “scomoda” ma “credibile” del parroco palermitano ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993

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“Il vostro battesimo sia come lo scudo, la fede come elmo, la carità come lancia, la pazienza come vostra armatura”.

L’esortazione di sant’Ignazio d’Antiochia, tratta dalla Lettera a Policarpo, sembra essere ispirata dalle persecuzioni e dai crimini perpetrati in tutto il mondo contro i cristiani, non ultimo il barbaro omicidio di tre suore italiane sgozzate in Burundi e presto dimenticate dalle cronache, come se la morte di religiose missionarie fosse meno importante  di altre morti causate da altre ragioni. Pure per questo l’appello di colui che è annoverato tra i Padri della Chiesa guadagna attualità ed assurge a monito a voler tener salda la propria fede, oggi come duemila anni fa, ed a difenderla, se necessario, fino al sacrificio. Alla maniera di don Pino Puglisi, della cui uccisione Totò Riina, intercettato dalle “cimici” della polizia giudiziaria, s’è vantato, augurandosi analoga fine per don Luigi Ciotti. La loro colpa? “Succhiano aria alla mafia”, ha affermato il boss, confermando l’attendibilità del movente dell’omicidio che ha poi portato alla beatificazione del parroco palermitano: Puglisi voleva fare il prete fino in fondo e, forte del Vangelo, sottrarre i ragazzi alle grinfie della malavita, far pensare, ridare fiducia alla gente, dar senso alla vita.

Che cosa ci ha consegnato don Puglisi, col suo martirio? Lo ricordava proprio don Ciotti nel 1994: “Egli ha incarnato pienamente la povertà, la fatica, la libertà e la gioia del vivere come preti, in parrocchia. Con la sua testimonianza ci sprona a sostenere quanti vivono questa stessa realtà con impegno e silenzio. Non il silenzio di chi rinuncia a parlare e denunciare, ma quello di chi, per la scelta dello stare nel suo territorio, rifiuta le passerelle o gli inutili proclami”.

Troppo scomodo, quel prete, per gente abituata a comprare ogni cosa, anche gli uomini. Senza prezzo quel sacerdote che non faceva professione di antimafia, che non girava con la scorta, ma che la mafia la combatteva da parroco: amministrando i sacramenti, disciplinando la liturgia e le sue manifestazioni esteriori, a partire dalle processioni. E ancora, dispensando il Verbo e coniugandolo col sostegno a battaglie di civiltà, tradottesi in richieste di istruzione, servizi, cultura. Lavorava in silenzio, lontano dalle luci della ribalta, ma scavava nelle coscienze, costruiva legami, apriva prospettive diverse. “Venti, sessanta, cento anni, la vita. A che serve – scriveva – se sbagliamo direzione? Ciò che importa è incontrare Cristo. Portare speranza e non dimenticare che tutti, ciascuno al proprio posto, anche pagando di persona, siamo i costruttori di un mondo nuovo”. E di un mondo nuovo il Beato è stato interprete e costruttore. Per questo è stato ucciso dai sicari di mafia sotto casa la sera del 15 settembre del 1993, suo 56° compleanno

Oggi per i credenti egli è il “testimone credibile, perché coerente” con la “Parola”; per i non credenti è un “uomo di parola” poiché non si è tirato indietro davanti al pericolo. Il suo sacrificio rivive nelle coscienze ponendosi come richiamo a dire no ai cattivi maestri, ai soprusi, alla mentalità di morte. E tutti esorta a fare di più, con coerenza, nella lotta alla mafia ed al male e, per dirla con parole sue, a “tenere duro come l’incudine sotto il martello”. Per essere, fino in fondo, cristiani, coerenti credibili.

+ Vincenzo Bertolone

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Vincenzo Bertolone

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