Sarà un momento di preghiera per i caduti di tutte le guerre del presente e del passato. Così, monsignor Santo Marcianò, Ordinario Militare per l’Italia, descrive il pellegrinaggio di papa Francesco al Sacrario Militare di Redipuglia, in programma per domattina.
A colloquio con ZENIT, Monsignor Marcianò, che ha recentemente pubblicato la lettera pastorale Il Dio che stronca le guerre (LEV), si è anche soffermato sul poco conosciuto lavoro dei cappellani militari e su come la vocazione alla santità possa realizzarsi anche in chi esercita il mestiere delle armi.
Eccellenza, qual è il significato profondo di questa visita di papa Francesco?
È stato il Papa stesso ad affermarlo: il suo sarà un pellegrinaggio di preghiera. Egli viene a Redipuglia a pregare per i caduti della Prima Guerra Mondiale e di tutte le guerre, invocando la pace per quanto, putroppo, ancora accade. La cronaca di questi giorni – fatta di conflitti importanti che, come il Santo Padre stesso ha affermato, sembrano aver scatenato una «Terza Guerra Mondiale combattuta a pezzi» (cfr. Conferenza Stampa sul Volo di ritorno dal Viaggio Apostolico in Corea, 18 agosto 2014) – mostra l’attualità e la drammaticità del problema. La preghiera del Papa, direi, è l’aspetto più significativo. Altrettanto significativo, però, è il luogo in cui questa preghiera avverrà. Un Sacrario Militare: un cimitero nel quale sono custoditi quei morti che hanno combattuto durante la guerra. Un luogo eloquente: per la memoria degli orrori che esso conserva, per la speranza della vita eterna che esso trasmette, per il messaggio di fratellanza che da esso traspare. È significativo che nei Sacrari Militari (il Papa, infatti, visiterà anche quello austro-ungarico) riposino assieme soldati che prima erano stati nemici. E mi piace pensare che questa fraternità sarà testimoniata dalla presenza a Redipuglia di rappresentanze di tutti i Paesi coinvolti nella prima Guerra Mondiale, che insieme ricorderanno e pregheranno.
Le frasi recentemente pronunciate dal Santo Padre sulle possibilità di risoluzione dei conflitti in Medio Oriente hanno suscitato vivaci discussioni. Ritiene che il Papa abbia semplicemente ribadito quella che è la dottrina cattolica in materia di guerra o c’è qualcosa di davvero rivoluzionario in quelle parole?
Dal punto di vista della dottrina non è una novità dire, come il Papa ha ribadito (cfr. Conferenza Stampa sul Volo di ritorno dal Viaggio Apostolico in Corea, 18 agosto 2014), che «è lecito fermare l’aggressore ingiusto». Ed è anche molto importante la precisazione: non «bombardare, fare la guerra, ma fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare, dovranno essere valutati». Tra l’altro, non bisogna dimenticare che è stato proprio a partire dal primo conflitto mondiale che il concetto di guerra, se così si può dire, ha subito una trasformazione, coinvolgendo militari e civili, donne e bambini, luoghi e paesaggi… impiegando l’uso di armi sempre più raffinate e devastanti. In questi casi non si può, pertanto, non intervenire anche se, evidentemente, tale intervento dovrà essere valutato con grande cura e prudenza: a tal fine un criterio fondamentale, lo ha ribadito pure il Santo Padre, è la ricerca di un confronto e di accordi a livello internazionale. La dottrina espressa da Papa Francesco, dunque, non è in se stessa una novità ma è una sottolineatura importante, in particolare proprio per i militari. Posti, come dice con chiarezza il Concilio (cfr. Gaudium et Spes, n. 79), «al servizio della patria» come «servitori della sicurezza e della libertà dei loro popoli», essi sono infatti collaboratori della «stabilità della pace». Ed è qui la sfida rivoluzionaria che perennemente bisogna accogliere, una sfida esigente ma bella, prima di tutto per la Chiesa Ordinariato Militare. E un gesto carico di significati del Papa a Redipuglia è la consegna della Lampada della Pace agli Ordinari Militari di tutti i Paesi presenti: lampada che dovrà ardere a testimonianza di quanto, come Chiesa, siamo chiamati a fare per la pace, con l’impegno fiducioso dell’annuncio evangelico e con la forza incessante della preghiera.
Quello dei cappellani militari è un apostolato poco conosciuto, su cui, verosimilmente, gravano i pregiudizi di molti. In cosa consiste, in realtà, il lavoro di questi sacerdoti?
È proprio così, un apostolato poco conosciuto e gravato di tanti pregiudizi ma un apostolato, come diceva Papa Giovanni XXIII – che è stato cappellano proprio nella prima Guerra Mondiale – che è un «delicatissimo ministero di pace e di amore» (Discorso ai cappellani miliari in congedo, 11 giugno 1959). Un apostolato che è presenza di Chiesa! La forza del servizio evangelico dei cappellani è proprio la presenza nella vita quotidiana dei militari, nei contesti e luoghi in cui essi vivono, perché questi stessi luoghi siano trasformati in vere e proprie “comunità” dove, senza obblighi di alcun genere, ogni militare si possa sentire accolto e accompagnato nel cammino umano e cristiano, nella vita sacramentale, nella crescita spirituale. È sorprendente, in particolare, quanti giovani e quante famiglie i cappellani possano avvicinare, talora anche in momenti critici o in situazioni di sofferenza, a volte anche sostenendoli economicamente. I nostri militari non sono affatto “guerrafondai”! Ma formare il cuore umano alla pace è sempre e per tutti necessario. E la Chiesa, specie con il ministero dei suoi sacerdoti, continua a farlo.
Celebrando i funerali dei piloti del VI Stormo, caduti nella sciagura aerea nelle Marche, lei ha descritto vite esemplari, molto coerenti con il messaggio cristiano. Come può perseguire la santità una persona che presta servizio in ambito militare?
La risposta è semplice e, allo stesso tempo, profondissima: «Vivendo il Vangelo». Il Vangelo è l’“arma” della santità, anche per i militari. È vero, le parole dette a quel funerale rispecchiavano il mio stato d’animo: sono stato sinceramente colpito dalla testimonianza della vita quotidiana dei giovani piloti vittime dell’incidente, dal loro modo di vivere gli affetti familiari, di affrontare la passione e l’impegno nel lavoro, dalla loro correttezza e competenza, dedizione e spirito di sacrificio. Da pastore, mi rendo sempre più conto di come questi siano valori non rari tra i militari. Se questi valori sono vissuti in un cammino di fede, di vero amore a Dio e ai fratelli, di dono di sé, sono ciò che, senza temere esagerazioni, si chiama santità. L’esempio di tante vite – per tutti basta citare Salvo D’Acquisto, del quale è in corso la causa di Beatificazione – lo testimonia con eloquenza.
Siamo nel centenario dello scoppio della Prima Guerra Mondiale: perché è importante ricordare quella “inutile strage”? Ritiene che i nostri contemporanei abbiano appreso la lezione dei tragici eventi bellici della prima metà del secolo scorso?
La memoria della guerra ha, ce ne rendiamo conto, un valore eminentemente pedagogico, affinché quanto accaduto non si ripeta. Mi piace dire che bisogna ricordare la storia per cambiare la storia! E, se questo è importante per le nuove generazioni le quali, almeno nella nostra realtà, non hanno conosciuto la tragedia della guerra, rimane valido per ciascuno di noi. Tutti dovremmo essere capaci di porre a noi stessi la domanda, tutti dovremmo chiederci se abbiamo appreso la lezione. Alle origini di ogni guerra, infatti, non ci sono solo squilibri di ordine politico ma ingiustizie sociali, discriminazioni razziali, intolleranze religiose, non ultimo l’indifferenza. Se questo centenario è prima di tutto occasione di preghiera, bisogna ricordare che pregare per la pace significa, per ciascuno, chiedersi in che modo si è operatori di pace. Non bisogna dimenticarlo: alle origini di ogni guerra c’è la smania del potere, dell’avere, del successo; c’è il dominio dell’
uomo sull’uomo che, potenzialmente, ci coinvolge tutti. Per questo, occorre riscoprire, in modo particolare, quella «cultura dell’umano» che è il presupposto della «cultura della pace». Una cultura che può cambiare la società non perché infarcita di proclami o conferenze ma perché fatta di gesti concreti a servizio della persona umana, di ogni persona umana, della sua vita e della sua dignità.