Ancora bambino di sette, otto anni, quand’ero libero dalla scuola, alle sette del mattino accompagnavo spesso il cugino Nicola. Lo zio lo aveva incaricato a mungere le vacche nella stalla a un chilometro di distanza.
Soprattutto durante la guerra, la polenta era di casa. Polenta cotta in vario modo, spesso arrostita sui fornelli. Polenta, tutti i giorni polenta, tre volte al giorno polenta. Benché quotidiana, per lo stomaco continuamente affamato, raramente sazio, risultava “oro” e non solo per il suo colore giallo.
Per la colazione due fette, una per me e una per lui, ce le portavamo dentro il secchio che poi si sarebbe riempito di latte.
Ma una mattina conobbi e feci amicizia con un ragazzo, figlio del padrone della stalla. Lo vedevo mangiare per colazione, intriso di latte, il suo “pane quotidiano”. Però una mattina mi fece limpidamente capire che gli sarebbe piaciuta nel latte la mia fetta di polenta arrostita. Insomma era stanco di pane, come io, del resto, ero stanco di polenta.
Affare fatto: grazie a quella amicizia, per diverse mattine lui gustava la mia fetta quotidiana di polenta abbrustolita e io la fragranza del suo “pane quotidiano”. E senza spendere un “franco”.
Che bella l’amicizia, mi sono detto. Amicizia che permette alle singole persone, come pure alle nazioni, di godere la varietà dei gusti nella reciproca disponibilità; necessaria amicizia che promuove lo scambio di quei doni che arricchiscono e rinnovano la vita e la rendono più bella e più gustosa.
Ciao da p. Andrea
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