La Croce: l'unico posto dove si vive da figlio nel Figlio

Commento al Vangelo della XXIV domenica del tempo ordinario. Anno A | Esaltazione della S. Croce

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Stravaganti questi cristiani; mentre nel mondo si esaltano i calciatori e le belle donne, il denaro e i successi, loro esaltano uno strumento di morte. Si appassionano a uno tra i patiboli più cruenti della storia.

Da sempre questa adorazione per la Croce è stata prese di mira dagli avversari del cristianesimo. E’ incomprensibile che qualcuno possa credere che un uomo visto da tutti inchiodato e morto su una croce sia risuscitato, come annunciò San Paolo al Re Agrippa: “Null’altro io affermo se non quello che i profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere, che cioè Cristo sarebbe morto, e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunziato la luce al popolo e ai pagani”. Ma il re, come tutti quelli che rifiutano l’annuncio della Chiesa, “a gran voce disse: «Sei pazzo, Paolo; la troppa scienza ti ha dato al cervello!».

E a te, e a me? La scienza della Croce ci ha dato al cervello, cioè un cambio radicale di mentalità? Come per San Paolo, il “mio e il tuo unico vanto è la Croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per noi è stato crocifisso, come noi per il mondo”?

Forse no… Forse abbiamo dimenticato che il primo gesto con cui la Chiesa ci ha accolto è stato proprio il segno della Croce, impresso dal presbitero, dai genitori e dai padrini: “Il segno della croce, all’inizio della celebrazione, esprime il sigillo di Cristo su colui che sta per appartenergli e significa la grazia della redenzione che Cristo ci ha acquistato per mezzo della sua croce” (Catechismo).

Dunque i pastori sanno che l’unico accesso alla vita cristiana è la Croce. Sanno cioè che non possono predicare niente altro che Cristo crocifisso. Solo la stoltezza e lo scandalo della parola della Croce, infatti, è sapienza e potenza di Dio in qualunque circostanza. Solo la Croce può salvare le persone loro affidate, solo ad essa devono condurle.

Anche i genitori hanno consegnato a Cristo i propri figli, crocifiggendoli profeticamente con Lui. Un padre e una madre cristiani hanno fatto l’esperienza che i figli saranno felici vivendo in pienezza solo se redenti da Cristo e se apparterranno a Lui, obbedendogli nelle varie circostanze della vita.

Se saranno crocifissi per gli altri, donandosi al coniuge, prendendo il peccato del prossimo, anche le offese, le discriminazioni, senza ribellarsi alle ingiustizie. Se accetteranno i fallimenti e le malattie, la precarietà economica, senza alienarsi e cercare le consolazioni della carne.

E’ chiaro, tutto ciò sembra una pazzia, proprio come disse il Re Felice a San Paolo. Quale genitore si augurerebbe la Croce per i propri figli? Suvvia, quando capita magari si cercherà di accettarla, ma desiderarla al punto di introdurli nella vita segnati da questo giogo no, questo non è umano; Dio non può chiedere questo.

Ebbene, se la pensi così significa che non sei cristiano. Che la sofferenza è ancora un inciampo, perché in essa non hai incontrato la vittoria di Cristo. La Croce ti sta schiacciando, e per te non è gloriosa al punto di “esaltarla”.

Perché? Perché ci siamo arenati e mormoriamo, come il Popolo di Israele. Chiamati alla Chiesa per uscire dall’Egitto e dalla sua schiavitù, ovvero dal mondo e dalla sua concupiscenza, verso la libertà di amare, non accettiamo di camminare nel “deserto”. 

Dove “non ci sono né pane né acqua”, la carne brama ciò di cui si è saziata nel mondo, ed è “nauseata dal cibo così leggero”, della manna che ci obbliga ad affidarci a Dio ogni giorno invece di condurre noi la nostra storia.

Nel “deserto” dove si impara ad essere cristiani il sibilo del “serpente” si fa più suadente, e ci insinua che Dio ci ha liberato “per farci morire”. E riesce a “morderci” perché ancora non abbiamo consegnato la vita a Cristo.

Siamo nella Chiesa nascondendo piccoli e grandi compromessi affettivi; non abbiamo dato via tutto, i beni e la volontà. L’odore e il sapore di agli e cipolle ci è rimasto appiccicato addosso, come le esperienze di peccato; ferite dolorose certo, ma è proprio dove il demonio affonda i suoi denti perché non siano sanate.

Come? Invitandoci a guardare indietro, come fece la moglie di Lot, che si fermò a vedere Sodoma bruciare e fu trasformata in una statua di sale; così anche noi, credendoci vittime di un’ingiustizia di Dio, ci voltiamo con nostalgia e rimpianto, e restiamo paralizzati, come “morti”, depressi e incapaci di perdonare, di uscire da noi stessi, di obbedire alla sua volontà.

Ma questa Domenica la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce ci viene in aiuto. Era necessaria la Croce, “bisognava” che Cristo vi fosse “innalzato”: “Adamo aveva perduto il paradiso terrestre. In lacrime lo cercava: Paradiso mio, paradiso meraviglioso! Ma il Signore nel suo amore gli fece dono, sulla croce, di un paradiso migliore di quello perduto, un paradiso celeste dove rifulge la luce increata della santa Trinità” (Silvano del Monte Athos).

Gesù si è fatto “serpente”, ovvero peccato, perché ogni “serpente” che ci ha ucciso, ossia ogni evento della nostra vita dove abbiamo peccato, fosse trasformato in un paradiso migliore. Sì, i cristiani “esaltano” la Croce perché essa “esalta” ogni circostanza che ci “abbassato”: trasforma come l’acqua in vino nuovo il matrimonio, infonde “vita eterna” in ogni relazione che giaceva senza speranza.

Gesù “si è umiliato” nella nostra vita, “obbedendo fino alla morte di Croce” che spettava a noi. Per questo la Croce rivela la misericordia di Dio che “non giudica il mondo”: su di essa, come sulla nostra storia, è colato il sangue di Cristo che ha lavato ogni peccato; su di essa, come sulla nostra carne, si è abbandonata la sua carne che ha vinto la morte.

Dio conduce la nostra storia ed è geloso dei suoi figli. Per questo “manda serpenti”, difficoltà, fallimenti, precarietà, situazioni e persone che ci umiliano. Ci segna con la Croce perché ci ama e vuole attirare il nostro sguardo verso suo Figlio Unigenito che “ha dato perché chiunque creda in Lui non muoia”. Anche se ha peccato, anche se ha mormorato sino a un istante fa.

Convertiamoci allora, e camminiamo nella Chiesa attraverso il “deserto” di ogni giorno. In essa sperimenteremo che “Dio ci ha tanto amato da dare il suo Figlio per noi” nei sacramenti; impareremo a “guardare” avanti, come un discepolo fissa le orme che conducono alla Pasqua il suo Maestro.  

Alla luce della Parola di Dio potremo fissare la Croce con gli occhi nuovi, come quelli del centurione che, vedendo Gesù spirare in quel modo, disse: “veramente costui era il Figlio di Dio!”.

Veramente la Croce è il mio posto, l’unico dove si vive da figlio nel Figlio. Veramente è la porta del Cielo dischiusa per il “mondo”: esso si “salverà” se “vedrà” Cristo “discendere dal Cielo” nei cristiani “innalzati” sulla Croce con Lui nella storia. Allora, “credendo nel Figlio” per la loro testimonianza, potranno “salvarsi per mezzo di Lui”.

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Antonello Iapicca

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