Per 40 anni l’Albania è stata vittima di una costituzione che proibiva espressamente la pratica religiosa. Al cadere del muro di Berlino e all’aprirsi della democrazia furono tante le cose che dovevano ricominciare da capo. Così è stato per la Chiesa, che dovette partire da zero per la sua opera di evangelizzazione.
“Pastore, costruttore, direttore della Caritas, segretario del vescovo, segretario della Conferenza Episcopale… Ho dovuto fare tutto. Tutto quello che mi chiedevano e che la realtà esigeva. Un lavoro molto intenso ma anche molto bello”. A parlare è mons. Segundo Tejado, sacerdote spagnolo, attualmente sottosegretario del Pontificio Consiglio “Cor Unum” che, in vista del viaggio di Papa Francesco in Albania del 21 settembre, ha raccontato a ZENIT degli anni trascorsi nel paese e del duro lavoro affrontato dalla Chiesa dopo decenni di oppressione.
Nel 1993, prima di iniziare a lavorare a Roma, mons. Tejado contribuì a ricostruire a 360° la Chiesa albanese. Come detto, il sacerdote non aveva un incarico specifico, dal momento che l’arcivescovo di Tirana aveva richiesto un prete che lo aiutasse “in tutto quello che c’era da fare”. Tanto che, nemmeno un anno dopo il suo arrivo, lo nominarono direttore di Caritas Albania.
Lo spagnolo svolse questo incarico per i successivi otto anni, attraversando tutte le crisi dovute in parte anche al passaggio dal comunismo ad una società democratica: la crisi finanziaria del ’97, quella sociale, quella politica. E soffrì lì anche la guerra del Kosovo, durante la quale le truppe serbe espulsero numerosi albanesi-kosovari dalla Macedonia e soprattutto dalla stessa Albania.
In questa circostanza, la Caritas “ha dovuto lavorare davvero sodo”, ricorda Tejado. “E’ stato un lavoro completo, perché abbiamo dovuto ricostruire molte strutture che in 40 anni erano state quasi tutte distrutte: chiese, monasteri … e soprattutto abbiamo dovuto ricostruire la comunità ecclesiale”.
“Sono stati 40 anni senza istruzione, senza pratica dei sacramenti – prosegue -. L’Albania era l’unico paese con una costituzione che vietava qualsiasi manifestazione religiosa, perseguibile per legge. Alcuni preti sono morti solo per aver battezzato un bambino a Tirana…”. Il sottosegretario di “Cor Unum” ricorda pure i sacerdoti che uscirono di prigione già molto anziani dopo la caduta del Muro di Berlino: “E’ stato un grande dono conoscere queste persone che avevano sofferto così tanto per la loro fede, per il fatto di essere sacerdoti o semprlicemente dirsi cristiani”.
Tuttavia ciò che mons. Tejado ha visto dal suo arrivo in Albania dal suo arrivo fino alla sua partenza è stato un cammino”molto lungo ma molto positivo”. “Il gran merito dei primi vescovi albanesi nominati da Giovanni Paolo II nel 1993 – afferma – è stato quello di rifare tutto dal nulla, di ricostruire un minimo per incominciare a lavorare”. E non è stato facile: “non avevamo un clero locale. Ora invece sono i giovani ad avere in mano la Chiesa e a portarla avanti”.
“Un tempo di kairós“, lo definisce comunque il sacerdote. “Il comunismo – afferma – aveva distrutto tutto ma non le radici del sentimento religioso naturale. Mi sono reso conto che lì in Albania era facile parlare del Vangelo, e che c’è stata una accoglienza molto ‘fresca’ della Parola di Dio. Inoltre, dobbiamo considerare che gli albanesi oggi se sono musulmani, cattolici o ortodossi lo sono per appartenenza familiare, mentre il popolo albanese di 40 anni fa post-comunismo era profondamente ateo, non conosceva Dio”.
Bisogna considerare poi che “l’Albania è un paese che mira verso ovest, storicamente e culturalmente, nonostante sia un paese che era appartenuto all’Impero Ottomano”, spiega Tejado. “L’Albania si è modernizzata molto rapidamente. I processi di cambiamento dal regime comunista ad una società più aperta e democratica sono stati velocissimi. Questo ha creato non pochi problemi soprattutto dal punto di vista intergenerazionale. Si sono create grandi tensioni tra le antiche tradizioni e il nuovo mondo che è stato percepito per lo più come una ‘inondazione’. Da parte sua la Chiesa non ha fatto altro che adattarsi alla nuova realtà, “compiendo il mandato affidatole da Cristo: essere sale, luce e lievito”.
Una grande spinta, in tal senso, è stata la visita di Giovanni Paolo II nel 1993. “Io sono arrivato dopo, ma già ero stato raggiunto dal grande eco di questo viaggio”, racconta il presule. “Fu qualcosa di fantastico, un segno di grande speranza per un popolo che era stato oppresso per così tanto tempo”. La visita del Pontefice polacco in Albania sembrò “un dono del Cielo”, “che un Papa andasse lì era una cosa troppo grande, enorme!”. “Tutto il popolo – ricorda -, musulmani, ortodossi e cattolici, tutti uscirono per strada ad incontrare il Papa”. E lo stesso avverrà ora con Francesco – assicura mons. Tejado -. L’Albania è un popolo molto accogliente, e quando dà il cuore, lo dà per davvero”.
Una visita, questa di Francesco il 21 settembre, che va interpretata nell’ottica di quell'”andare nelle periferie” che Bergoglio ha detto sin dai primi giorni di pontificato. “Certo, è lo stile del Papa – conferma infatti Tejado – Ma, attenzione, è lo stile di ogni cristiano. Il cristiano non è mosso da logiche di potere, economico o di convenienza. Il Papa è una persona molto influente in tal senso. È stato invitato e ha detto: ‘Sì, devo andare lì’. Il paese più piccolo, con meno abitanti, che è economicamente meno forte… Questa è una logica cristiana. Gesù ha scelto i piccoli, non si è circondato da persone potenti, per avere poi una ricompensa. Non era questa la sua logica”.
Il Papa – soggiunge il prete – ha parlato poi di dialogo interreligioso, “un tema molto interessante in Albania”. “È vero che gli albanesi rappresentano un unico gruppo etnico, che determina una base di unità molto importante. Nel paese, comunque, c’è un dialogo costante e non sporadico tra le religioni. Inoltre, da quello che ho visto, in Albania sono assenti componenti radicali o fondamentaliste”.
Alla domanda su quali frutti potrà portare la visita del Pontefice argentino, il sottosegretario di “Cor Unum” afferma: “I frutti si vedranno in seguito. Penso che il primo frutto dell’Europa sia una parola che viene costruita sulla base di interessi economici. Ma l’Europa deve cominciare a cercare di edificare se stessa con altri criteri. Credo che sia questo il messaggio che il Santo Padre sta cercando di dire. I criteri non possono essere solo economici o strategici. I popoli sono costruiti con ben altre ricchezze”.
Parlando di Albania il pensiero non può che andare, infine, alla Beata Teresa di Calcutta, la cui grande testimonianza rivive ancora fervidamente nel popolo albanese. “Gli albanesi sono molto orgogliosi di essere stati connazionali di una donna così”, dice mons. Tejado e ricorda di quando conobbe la Beata proprio in Albania. “E’ paradossale – osserva – che Dio abbia fatto un gioiello di donna così piccola da una nazione così piccola da un punto di vista ‘mondano’. La Beata è presente ovunque, per gli albanesi è come un orgoglio nazionale. L’aeroporto è dedicato a lei, così come la piazza principale di Tirana, l’ospedale… Gli albanesi la amano molto. Madre Teresa nutriva un affetto speciale per l’Albania, dove tornò molte volte e dove fondò numerosi conventi”.