La Chiesa, luogo del Perdono

Lectio Divina per la 23ª Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

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Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la 23ª Domenica del Tempo Ordinario – Anno A.

Come di consueto, il presule offre anche una lettura patristica.

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LECTIO DIVINA

Rito Romano – XXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 7 settembre 2014

Ez 33,1.7-9; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20

Rito Ambrosiano – II Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore

Is 60,16b-22; Sal 88; 1Cor 15,17-28; Gv 5,19-24

1) Il perdono come correzione per guadagnare un fratello.

Il brano evangelico di questa domenica segue immediatamente il racconto della parabola della pecorella smarrita della quale è, quindi, un’applicazione concreta. Se un fratello ha commesso una colpa si deve applicare, in primo luogo, la correzione personale. Se non ascolta, bisogna chiamare in aiuto qualche testimone. Se continua a non ascoltare il richiamo alla conversione, bisogna rivolgersi alla comunità. Se non ascolta neppure questa, si deve, solo allora, considerarlo come un pagano o pubblicano, cioè come uno che s’è messo fuori comunità.

A questo insegnamento sulla correzione fraterna Gesù unisce quello sul perdono dare 70 volte 7, vale a dire sempre, e sulla onnipotenza della preghiera, purché fatta in comunità, anche se è costituita da solo due o tre persone. Naturalmente queste persone per pregare Dio devono essere riconciliate tra di loro.

Quantunque in questo passo evangelico si parli molto di perdono senza limite, è detto chiaramente che il male va denunciato e che bisogna correggere chi lo compie. Le parole del Vangelo di oggi illuminano come i fratelli possono distruggere le barriere che il diavolo costruisce tra di loro. La Chiesa, infatti, ha la consapevolezza che il “peccato” ha il potere di distruggere la comunione e far perdere così al sale il sapore. Una comunità divisa perché qualche “fratello ha commesso una colpa” e non è stato “guadagnato” al perdono, non può compiere la sua missione nel mondo, vale solo per essere calpestata dagli uomini come si fa col sale che non serve più a niente.

Gesù ci dice di non restare indifferenti “se qualcuno ha peccato”, perché c’è di mezzo la vita di comunione con Dio etra di noi, perché c’è di mezzo il Cielo da schiudere agli uomini attraverso la Chiesa.

Non si tratta di una semplice questione giudiziaria per salvaguardare l’ordine della società o della famiglia. Gesù non offre la propria versione dei differenti gradi di giudizio in un processo per il buon ordine dello Stato. Egli mostra come il giudizio di misericordia del Padre che è nei cieli si realizza nella Chiesa che è sulla terra. Occorre avere a cuore il destino del nostro fratello e della nostra sorella come aveva ben intuito San Francesco d’Assisi: “E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me suo servo e tuo,  se ti comporterai in questa maniera, e cioè:  che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare,  che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse perdono,  chiedi tu a lui se vuole essere perdonato.  E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli”. (San Francesco d’Assisi, Lettera a un ministro)

Anche la prima lettura della Messa di oggi con il brano del profeta Ezechiele mette in evidenza questo medesimo insegnamento: il profeta è come una sentinella, e ha l’imprescindibile dovere di annunciare le esigenze di Dio, di denunciare la menzogna dovunque si trovi. Ma lo scopo è sempre quello di aiutare il fratello a prendere coscienza del suo stato di peccato, perché possa pentirsi. Lo scopo è di creare nei peccatori un disagio, perché è proprio in una situazione di disagio che spesso Dio si inserisce e spinge al ritorno.

Alla luce di queste brevi riflessioni, si capisce la seconda frase di Gesù riportata in questo brano del Vangelo di San Matteo: “perdonare non sette volte, ma settanta volte sette”. Occorre dunque perdonare sempre, un perdono senza misura, perché Dio ci ha fatto oggetto di un perdono senza misura. Il perdono al prossimo è la diretta conseguenza del perdono di Dio verso di noi. Se è un dovere di carità denunciare il male e correggere chi lo compie, è perché tu hai già perdonato e ami il peccatore. Per questo hai il diritto di correggerlo. Nella comunità cristiana continua il peccato, ma parallelamente continua, ancora più “ostinato”, il perdono dei peccati.

2) La preghiera come correzione e intercessione

Anche se è necessaria una severità, a volte anche grande, essa deve nascere da un cuore misericordioso come quello del Pastore buono, che dopo averla tolta dalle spine dei rovi, prende la pecorella sulle spalle. La corregge sorreggendola. Come suggerisce l’etimologia, il verbo “correggere” che significa “reggere insieme” e non punizione.

Per correggere nella verità

– occorre amare l’altro al punto di desiderare di portare con lui il peso dei suoi peccati, come ha fatto Cristo prendendo su di sé il peccato del mondo;

– occorre amare in Cristo, che ci chiama a prendere il suo giogo dolce e leggero: la Croce che purifica e perdona;

– occorre pregare insieme con Cristo. Gesù non è un altro tra noi, ma è Colui che tutti ci unisce in solo corpo, tutti ci unisce in un medesimo Spirito. Lui ci unisce tutti in un medesimo amore che corregge perdonando, perché in noi peccatori vede delle persone non condannabili, ma perdonabili.

 Gesù ha implorato il perdono e noi ci uniamo a Lui nella preghiera, soprattutto eucaristica, chiedendo ad “Abbà, Papà” che la sua volontà sia fatta, cioè che nessuno si perda. Pregando in comunione di carità esercitiamo – in un certo senso – il ministero di “sciogliere” dai lacci del peccato e di “legare” di nuovo alla comunione1 con il Padre e con i “fratelli”.

Questa preghiere di “correzione” e di intercessione è esercitata in modo particolare dalla Vergini Consacrate nel mondo.

Queste donne, figlie della Chiesa, sanno che il Signore non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr Ez 18,23; 33,11). In effetti, il desiderio di Dio è sempre quello di perdonare, salvare, dare vita, trasformare il male in bene. Ebbene, è proprio questo desiderio divino che, nella preghiera, diventa desiderio della persona umana e si esprime attraverso le parole dell’intercessione. Con la preghiera di intercessione si presta la propria voce ed anche il proprio cuore, alla volontà divina: il desiderio di Dio è misericordia, amore e volontà di salvezza, e questo desiderio di Dio trova in queste donne (e anche in ciascuno dei cristiani) e nella loro preghiera la possibilità di manifestarsi in modo concreto all’interno della storia degli uomini, per essere presente dove c’è bisogno di grazia.

L’insegnamento della Chiesa, luogo del perdono, e l’esempio delle Vergini consacrate ci educhi ad aprire sempre di più il cuore alla misericordia smisurata di Dio, perché nella preghiera quotidiana sappiamo desiderare la salvezza dell’umanità e chiederla con perseveranza e con fiducia al Signore che è grande nell’amore, un amore sorprendente e sconfinato.

Consegnando il libro della Liturgia delle Ore, il Vescovo si rivolge alla consacrata con queste parole: “La preghiera della Chiesa risuoni senza interruzione nel tuo cuore e sulle tue labbra come lode perenne al Padre e viva intercessione per la salvezza del mondo” (Rituale della Consacrazione delle Vergini, riti esplicativi, n. 48), perché il primo e irrinunciabile impegno delle vergini consacrate è quello della preghiera, come viene espressamente richiesto durante il rito di consacr
azione (cfr. Ibid., Premesse, n. 2). Per questo, ogni vergine appartenente all’Ordo tiene costantemente presente che la preghiera non è solamente una personale, generosa risposta alla voce dello Sposo e un’umile richiesta di aiuto per mantenersi fedele al santo proposito e al dono ricevuto, ma è intima partecipazione alla vita del Corpo mistico di Cristo, intercessione instancabile per la Chiesa e per il mondo.

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Lettura Patristica

Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo
(Om. sul diavolo tentatore 2, 6; PG 49, 263-264)

Le cinque vie della riconciliazione con Dio

“Volete che parli delle vie della riconciliazione con Dio? Sono molte e svariate, però tutte conducono al cielo.La prima è quella della condanna dei propri peccati. Confessa per primo il tuo peccato e sarai giustificato (cfr. Is 43, 25-26). Perciò anche il profeta diceva: «Dissi: Confesserò al Signore le mie colpe, e tu hai rimesso la malizia del mio peccato» (Sal 31, 5).Condanna dunque anche tu le tue colpe. Questo è sufficiente al Signore per la tua liberazione. E poi se condanni le tue colpe sarai più cauto nel ricadervi. Eccita la tua coscienza a divenire la tua interna accusatrice, perché non lo sia poi dinanzi al tribunale del Signore.Questa è dunque una via di remissione, e ottima; ma ve n’è un’altra per nulla inferiore: non ricordare le colpe dei nemici, dominare l`’ira, perdonare i fratelli che ci hanno offeso. Anche così avremo il perdono delle offese da noi fatte al Signore. E questo è un secondo modo di espiare i peccati. «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi» (Mt 6, 14).Vuoi imparare ancora una terza via di purificazione? E’ quella della preghiera fervorosa e ben fatta che proviene dall’intimo del cuore.Se poi ne vuoi conoscere anche una quarta, dirò che è l’elemosina. Questa ha un valore molto grande. Aggiungiamo poi questo: Se uno si comporta con temperanza e umiltà, distruggerà alla radice i suoi peccati con non minore efficacia dei mezzi ricordati sopra. Ne è testimone il pubblicano che non era in grado di ricordare opere buone, ma al loro posto offrì l’umile riconoscimento delle sue colpe e così si liberò dal grave fardello che aveva sulla coscienza.Abbiamo indicato cinque vie di riconciliazione con Dio. La prima è la condanna dei propri peccati. La seconda è il perdono delle offese. La terza consiste nella preghiera, la quarta nell’elemosina e la quinta nell’umiltà.Non stare dunque senza far nulla, anzi ogni giorno cerca di avanzare per tutte queste vie, perché sono facili, né puoi addurre la tua povertà per esimertene. Ma quand’anche ti trovassi a vivere in miseria piuttosto grave, potrai sempre deporre l’ira, praticare l’umiltà, pregare continuamente e riprovare i peccati, e la povertà non ti sarà mai di intralcio. Ma che dico? Neppure in quella via di perdono in cui è richiesta la distribuzione del denaro cioè l’elemosina, la povertà è di impedimento. No. Lo dimostra la vedova che offrì i due spiccioli.Avendo dunque imparato il modo di guarire le nostre ferite, adoperiamo questi rimedi. Riacquistata poi la vera sanità, godremo con fiducia della sacra mensa e con grande gloria andremo incontro a Cristo, re della gloria, e conquisteremo per sempre i beni eterni per la grazia, la misericordia e la bontà del Signore nostro Gesù Cristo.”

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NOTA

1) Il termine comunione traduce la parola greca koinonia, che a sua volta traduce la parola ebraica khaburah. Tutte e due indicavano, in origine, una cooperativa, una società, come quella dedita alla pesca composta da Pietro, Giacomo e Giovanni. Nell’ambiente giudaico contemporaneo a Gesù khaburah indicava, tra l’altro, la comunità di almeno dieci persone riunita per celebrare la Pasqua. Quindi anche gli apostoli riuniti con Gesù durante la sua ultima cena formavano una khaburah: la partecipazione al Mistero Pasquale del Signore gettava le fondamenta della comunione.  In effetti, nella Pasqua celebrata da Cristo nel Cenacolo avviene qualcosa di assolutamente nuovo: Dio che s’era fatto carne, provocando scandalo e rifiuto, diviene tanto prossimo all’uomo da farsi carne da mangiare e sangue da bere. La comunione tra gli uomini si fonda nella comunione con Gesù; in virtù del suo Mistero Pasquale, il Figlio di Dio comunica se stesso ai suoi apostoli che, uniti a Lui, divengono così figli del suo stesso Padre.

Per questo, la comunione non è il frutto degli sforzi dell’uomo, delle sue capacità di mediazione, non nasce dal voto di fiducia della maggioranza, non si stabilisce nei palazzi del potere politico, non si fonda sulle affinità umane o su comuni ideali. La comunione è un dono dello Spirito Santo, il soffio della vita eterna che la mattina di Pentecoste irruppe nel Cenacolo e prese dimora nella Vergine Maria e negli Apostoli, dando alla luce la Chiesa. Da quel giorno, nel corso della storia, lo Spirito di Cristo risorto rompe le barriere di razza, lingua e cultura, e unisce i cristiani nel suo amore che ha vinto il peccato e la morte. 

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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