Ma come si arrivò alla prima Guerra Mondiale? Quali erano le forze in campo e come si schierarono? L’Italia era impreparata e disarmata perché entrò in guerra? Quali furono le ragioni che impedirono alla Santa Sede di fermare la grande Guerra?
Domande che ancora oggi, dopo circa un secolo, non hanno una risposta definitiva. Domande che ZENIT ha posto a Lorenzo Del Boca, giornalista e saggista, già presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, attualmente vicepresidente della Fondazione del Salone del Libro di Torino.
Tra i tanti libri di storia scritti e pubblicati da Del Boca c’è anche “Grande guerra, piccoli generali. Una cronaca feroce della Prima Guerra mondiale”, edito dall’UTET. Il giornalista è attualmente in procinto di scrivere un altro libro sul primo conflitto mondiale che dovrebbe uscire nel 2015, a cento anni dal suo inizio.
Come e perché ebbe inizio la Guerra? Secondo Del Boca: “Da almeno una dozzina d’anni, i governi e gli eserciti di mezza Europa si stavano attrezzando per dichiararsi guerra e andavano cercando un pretesto, spendibile sul piano diplomatico, che consentisse loro di cominciare a sparare senza apparire degli arroganti attaccabrighe. I francesi covavano una voglia di rivincita, dopo la sconfitta patita nel 1870, a Sédan, e continuavano a rivendicare diritti sull’Alsazia e la Lorena. I tedeschi avevano preparato un piano d’invasione della Russia meridionale. Ma anche i russi ne avevano uno – speculare e reciproco – per attaccare la Germania dal settentrione”.
“Quanto all’Austria – prosegue Del Boca -, lo stato maggiore aveva progettato di fare a pezzi l’Italia che continuava a considerare ‘cosa sua’ e alla quale non perdonava le guerre del Risorgimento che le avevano sottratto territori considerati vitali, come Venezia. Avevano immaginato di approfittare del terremoto di Messina, all’inizio del secolo, che aveva portato in Sicilia la maggior parte degli effettivi dell’esercito. Fu l’imperatore austro-ungarico, Francesco Giuseppe, a non autorizzare un attacco che sarebbe risultato vigliacco e proditorio. Però il vero focolaio, destinato a trascinare un continente in guerra, stava nel cuore dei Balcani dove etnie e nazionalismi stavano creando i presupposti di un cocktail incandescente”.
Secondo il saggista, in Austria l’erede al trono Francesco Ferdinando non era gradito per questo venne mandato a Sarajevo con la speranza nemmeno troppo nascosta che lo facessero fuori. “Un delitto – spiega – avrebbe raggiunto il duplice scopo di liberare il governo dal pericolo di un inetto alle soglie del potere assoluto e di accontentare i militari che andavano elemosinando un pretesto per accendere le polveri di un conflitto. In maniera bizzarra l’attentato organizzato dai giovani della ‘mano nera’ era fallito.
Uno dei congiurati Nedeljko Cabrinovic (che tutti chiamano “Nedjo”) lanciò la bomba contro l’auto imperiale. Ma l’ordigno non funzionava a percussione, esplodeva a tempo e, prima che il congegno scoppiasse, l’obiettivo era già troppo avanti per subire danni. La bomba coinvolse la vettura che stava dietro, ferendo due ufficiali.
L’arciduca venne accolto in municipio dove doveva svolgersi la cerimonia di benvenuto. Decisero di cancellare tutti gli appuntamenti che rimanevano. L’erede al trono riprese posto sulla macchina ma l’autista non venne informato che il programma era cambiato e, invece di percorrere il vialone, per uscire dalla città, si infilò nella via prevista nell’itinerario originale. Per una di quelle coincidenze della storia, la strada erroneamente imboccata era la Francesco Giuseppe strasse”.
Qualcuno in questo “equivoco” vede un’ulteriore conferma del complotto. Perché, prosegue Del Boca, “per quella strada, davanti alla pasticceria Moritz-Schiller stava camminando un altro dei congiurati Gavrilo Princip. Era mogio-mogio perché aveva già verificato il fallimento dell’attentato, aveva visto l’amico portato in caserma dai poliziotti e immaginava che, di lì a poco, avrebbero cercato anche lui. Si trovò davanti un bersaglio che non poteva sbagliare. Sparò solo due colpi ma furono sufficienti per uccidere l’arciduca e la moglie.
Nonostante la gravità dell’attentato per parecchi giorni gli Stati europei rimasero fermi. L’Austria voleva una rappresaglia violenta e definitiva contro la Serbia ma non era in grado di affrontare, da sola, i rischi di un conflitto che non poteva rimanere un episodio regionale. Vienna aveva bisogno dell’appoggio della Germania e, solo quando l’ebbe ottenuto, firmò l’ultimatum per la Serbia.
Gli altri paesi, soprattutto l’Inghilterra, tentarono di convocare un summit in extremis per tentare di trovare una soluzione ed evitare il rischio dell’effetto-domino. Inutile. Vienna si dispose all’invasione della Serbia e la Russia intervenne in difesa dei popoli balcanici che, tradizionalmente, stavano nella sua orbita di amicizie. La Germania dichiarò aperte le ostilità con la Russia e con la Francia e, per arrivare in fretta a Parigi, invase il Belgio che era neutrale. La Gran Bretagna che avrebbe volentieri fatto a meno di imbracciare le armi, di fronte a una così palese violazione del diritto internazionale, non poté esimersi dal fare la sua parte”.
Alla domanda sul perché l’Italia non entrò in guerra, Del Boca ha risposto che “l’Italia non riuscì a rendersi conto di quanto stesse accadendo. Sui fronti europei era già chiaro che il conflitto sarebbe stato lungo, faticoso, massacrante e inconcludente. Eppure, dopo la dichiarazione di neutralità, che avrebbe tolto il paese dai guai e gli avrebbe risparmiato un milione e mezzo di vittime fra morti e storpiati, scelse di partecipare alla contesa rivoltando di 180 gradi l’alleanza. Via dalla Triplice Alleanza con Austria e Germania per approdare all’Intesa con Francia e Inghilterra”.
“L’Italia non era nelle condizioni di scendere in campo”, aggiunge. “Il suo esercito era ridotto ai minimi termini. I magazzini militari erano vuoti di tutto e non disponevano di niente. Si trattava di mobilitare un milione di coscritti ma lo stato maggiore era nelle condizioni di equipaggiarne abbastanza decentemente solo 700 mila. Per 200 mila non esistevano nemmeno le divise. L’artiglieria non esisteva perché i cannoni da campagna erano dei ferrivecchi. Un consorzio industriale composto da 27 aziende che si erano assunte la responsabilità di produrre il cannone da 75 millimetri si dimostrò sollecito solo nel distribuire utili e tangenti ai soci di maggior prestigio. Le consegne cominciarono alla metà del 1915, quando la guerra era già iniziata da un pezzo. Quanto alle mitragliatrici, al momento della dichiarazione di guerra non c’era niente e si decise di ordinare in fretta e furia una serie di sezioni di mitragliatrici, rivolgendosi alla Fiat che era stata precedentemente scartata per insufficiente affidabilità del prodotto”.
“Scendere in armi in quelle condizioni – spiega il giornalista – fu una scelta criminale che va equamente ripartita fra militari carichi di stellette ma digiuni d’intelligenza e politici di corta avvedutezza ma di spropositate ambizioni. Per giustificare l’entrata in Guerra la propaganda governativa si fece scudo della questione di Trento e Trieste ma la maggior parte dell’elite triestina poteva considerarsi italiana linguisticamente, non certo per etnia”.
Molti degli “irredenti” e dei più ferventi “nazionalisti” discendevano da ceppi non latini: “Erano greci, albanesi, ebrei, armeni che, parlavano italiano ma non si sentivano italiani al punto da combattere l’Austria. Così a fronte di quasi 4 mila trentini e friulani che disertarono dall’esercito austriaco per mettersi a disposizione dei reparti italiani, si contarono 52 mila loro coetanei che vestirono la divisa asburgica grigio-azzurra e combatterono, fino alla fine, anche contro gli italiani”.
Ma è vero che la Santa Sede tentò in ogni modo di impedire la guerra? Su questo punto Del
Boca non ha alcun dubbio e afferma:“La Chiesa tentò in ogni modo di evitare lo scontro fra gli stati europei. Inutilmente. Del resto, come può essere ascoltata una parola pacata di mediazione se, intorno, la folla urla? Il frastuono di tanti copre la singola voce”.
“Pio X, poi, morì improvvisamente la notte del 20 agosto 1914. Non soffriva di gravi malattie. Il referto precisò che si trattava di polmonite. Anche al successore, otto anni dopo, capitò la stessa sorte: polmonite fulminante”.
Il Conclave si riunì, quindi, a settembre, in un clima “già influenzato dagli orrori della guerra”. “I cardinali stranieri sembravano più devoti agli interessi bellici dei loro paesi piuttosto che alla causa cristiana. Pareva che la scelta del nuovo Pontefice dovesse premiare il segretario di stato Merry del Val. Ma poi spuntò il nome di Giacomo Della Chiesa. Il cardinale tedesco Felix Hartmann rese pubblica una dichiarazione in cui sosteneva che il candidato nutriva pregiudizi anti tedeschi. Ma gli austriaci lo votarono in blocco”.
La prima azione del nuovo Papa – ricorda Del Boca – fu quella di “tentare una mediazione per tenere fuori l’Italia dal conflitto. Roma voleva delle concessioni territoriali a oriente e il Vaticano, attraverso gli opportuni canali diplomatici, si preoccupò di contattare i vertici politici e militari di Vienna implorandoli di accondiscendere a qualche richiesta”.
Probabilmente era già troppo tardi: “L’Austria diffidava degli italiani che dicevano una cosa, ne pensavano un’altra e ne facevano una terza. L’Italia, da parte sua, aveva preso impegni con mezzo mondo e non poteva più tirarsi indietro”.
La Santa Sede e lo stato italiano si parlarono pertanto con la mediazione dell’ambasciatore, barone Monti. “Fu un processo non trasparente, messo su un binario sotterraneo, che risentiva dell’atteggiamento liberal-massonico del governo. I risultati, da questo punto di vista, finirono con un bilancio incerto”.
Molti, ancora oggi, si chiedono perché papa Benedetto XV non riuscì a impedire che l’Italia entrasse in guerra. “Il ministro degli esteri Sidney Sonnino respinse l’invito della Chiesa – spiega l’autore -, la quale chiedeva di ratificare uno scambio dei prigionieri fra Italia e Austria. Si trattava di 250 mila e almeno 50 mila erano malati di tubercolosi per il freddo e per la malnutrizione. Un accordo del genere non sarebbe stato nemmeno una novità. L’intesa era già stata raggiunta fra Francia e Germania. Il governo italiano si oppose definitivamente, nel maggio del 1918, con il nuovo presidente Vittorio Emanuele Orlando che giustificò la decisione: ‘I francesi e i tedeschi sono soldati più validi dei nostri. I nostri sono meno resistenti, più impressionabili e più stanchi della guerra. Se vedessero che, facilmente, i prigionieri sono restituiti, vi è ragione di credere che preferirebbero darsi prigionieri piuttosto che esporre le loro vite’”.
La guerra fa di ogni crimine una necessità. Di Benedetto XV è passata alla storia la sua veemente richiesta di trovare soluzioni politiche al conflitto sospendendo “l’inutile strage”. “Questo appello anticipa una cultura ecclesiastica che non è stata più abbandonata”, afferma lo scrittore, ricordando che tutti i Papi, “Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e, adesso, Papa Francesco, di fronte a conflitti anche lontani, hanno esortato i contendenti con un: ‘Fermatevi!’”
Benedetto XV fu però equivocato. “L’Intesa – conclude Lorenzo Del Boca – accusò la sua predicazione di ispirarsi a un atteggiamento filo-austriaco mentre gli imperi centrali, al contrario, sospettarono che la richiesta era destinata a favorire gli avversari. Gli italiani del popolo – contadini e operai che andavano al fronte a morire – solidarizzarono con il Pontefice. Il generale Cadorna e gli alti papaveri dello stato maggiore ne presero le distanze. Per loro si trattava di ‘disfattismo’ destinato a creare malumori fra le truppe e a far diminuire lo spirito bellico del popolo in armi”.