Può esistere qualcosa di bello che non sia anche vero e buono? È questo l’interrogativo alla base dell’ultimo volume di Corrado Gnerre, Dove lo sguardo quiete (Fede e Cultura, Verona 2013, pp. 210, €14,89), presentato a Salerno dall’architetto Paolo Calderaro, socio fondatore delle associazioni “Ecclesia Studio” e “Veritatis Splendor”, e dall’autore stesso, docente di Antropologia Filosofica presso l’Università Europea di Roma. L’incontro, promosso dall’associazione culturale salernitana “Veritatis Splendor”, si è svolto lo scorso 20 dicembre presso la Chiesa del S. Rosario, gioiello del barocco salernitano.
Proprio all’Aquinate è ispirato il sottotitolo del volume: La Bellezza come estetica del Vero e del Bene, che fornisce chiaramente una risposta puntuale al quesito posto: ciò che bello, se è realmente tale, deve necessariamente essere anche vero e buono. Verità, bontà e bellezza sono infatti i caratteri trascendentali dell’essere stesso, per riprendere un concetto noto e familiare alla maggior parte dei filosofi medievali.
“Oggi si ritiene che il bello sia soggettivo, anche se sembra comunque aver bisogno del consenso del gusto altrui”. Questa è soltanto una delle molteplici contraddizioni che l’architetto Calderaro ha riscontrato nella sua analisi del concetto di bello nella cultura contemporanea, dal momento che “con la nascita dell’estetica si è dissolto il legame tra bellezza e verità e tra forma e contenuto”. Sono piuttosto i critici a costituire l’élite indiscussa in grado di fornire la chiave ermeneutica per la comprensione di un’opera d’arte contemporanea, in base alla quale si preferisce conseguentemente tacciare di ignoranza quei fruitori che si permettono di dissentire dal loro giudizio. Al contrario esiste una bellezza oggettiva e universalmente condivisibile in quanto, per dirla con S. Tommaso, “bello è ciò che visto piace”. Non basta dunque che l’oggetto sia visto, occorre che sia riconosciuto capace di suscitare piacere. “D’altra parte – prosegue Calderaro – la bellezza è il piacere del gusto”. Perciò non ogni oggetto può essere un’opera d’arte, ma occorre che rispetti alcuni criteri. Innanzitutto l’oggetto artistico deve avere una debita proportio, cioè un’armonia tra le parti che lo costituiscono; una perfectio, che è il fine cui corrispondere, e infine una claritas, cioè deve poter risplendere del colore, della tonalità di luce che gli appartiene nella realtà. Insomma l’opera d’arte, come per la Pietà di Michelangelo, deve comunicare un’intuizione dell’artista che sia in grado di esser percepita, seppur a livelli differenti, da chiunque la contempli per essere condivisa. In tale ottica emerge anche il legame della bellezza con la verità e la bontà. L’architetto Calderaro ha sottolineato con rammarico come l’arte abbia perso il suo fine educativo nel distanziarsi dalla verità e dalla bontà. Occorre pertanto recuperare tale triade metafisica dal momento che, per citare un’espressione coniata da Corrado Gnerre nel suo volume, “la bellezza è il fiore della verità”. Papa Francesco lo ha ribadito: “La Chiesa esiste per comunicare proprio questo: la Verità, la Bontà e la Bellezza “in persona”. Gli archetipi del bello sono allora Cristo e l’Immacolata, Colei che ha generato la fonte di ogni bellezza creata. Nel Verbo è offerto infatti all’uomo il criterio per riconoscere e distinguere la verità dall’errore, il bene dal male e il bello dal brutto.
In apertura del suo intervento, il professor Corrado Gnerre ha subito rilevato il contributo fondamentale del cristianesimo allo sviluppo delle arti figurative, il quale affonda le sue radici nella concezione di un Dio personale. Infatti “è la logica dell’Incarnazione che legittima la descrizione del corpo umano, evitando ogni riduzionismo antropologico dell’uomo a solo corpo (corporeismo) o a solo spirito (spiritualismo)”. D’altra parte se l’Italia possiede la percentuale più alta del patrimonio artistico mondiale lo deve proprio al cristianesimo. “La componente spirituale dell’uomo ha bisogno di contemplare il bello, perché è la commozione di ogni uomo, qualunque sia la sua condizione sociale o culturale, a sensibilizzarlo al bene”. La fiducia nell’esistenza di una verità oggettiva e quindi di una bellezza universalmente condivisibile spinse i medievali a spendere la propria vita per costruire le cattedrali a maggior gloria di Dio, consapevoli che la loro esistenza non avrebbe consentito loro di vedere i frutti del proprio lavoro e l’opera conclusa. E che la bellezza meriti sempre e comunque di essere ricercata e realizzata, in specie nell’arte sacra, lo testimonia la magnificenza delle guglie di tali cattedrali, viste soltanto dagli uccelli del cielo, eppure così splendidamente lavorate in ogni particolare. Ecco perché – ha concluso Corrado Gnerre – sarebbe opportuno recuperare il senso autentico della bellezza, laddove la cultura relativistica del secolo XX ha definito “opere d’arte” persino un orinatoio (la fontana di Duchamp) e una scatola contenente delle feci (“Merda d’artista” di Piero Manzoni). Ciò non dovrebbe meravigliare, perché in una cultura nichilista “ogni gesto è uguale, non vi è differenza tra un’impresa eroica e l’espletamento dei propri bisogni fisiologici”.