Amare e servire: il realismo storico di papa Francesco

Un padre gesuita che ha frequentato il collegio dove viveva padre Bergoglio, commenta l'”Evangelii gaudium”

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L’11 dicembre scorso presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, è stato presentato a Roma il libro Amare e Servire. Il realismo storico di Papa Francesco, scritto da monsignor Lorenzo Leuzzi, vescovo ausiliare della diocesi di Roma, Delegato per la Pastorale Universitaria e Sanitaria della Diocesi di Roma.

A presentarlo tra gli altri anche padre Miguel Yanez, SJ, Direttore del Dipartimento di Teologia Morale della PUG.

In una intervista concessa a Marina Tomarro per Radio Vaticana, padre Yanez ha raccontato che, fra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, ha studiato al collegio San Giuseppe a San Miguel, in Argentina,

Dal 1977 al 1979, l’allora padre Jorge Mario Bergoglio era provinciale dei gesuiti e viveva proprio nel collegio San Miguel.

Padre Yanez ha incontrato e frequentato padre Bergoglio proprio in quegli anni. Ne ha condiviso la quotidianità della vita in collegio, lo studio, ma anche i momenti di ricreazione insieme. Successivamente, lo ha incontrato di nuovo, dall’81 all’ 85 quando padre Bergoglio era diventato rettore del collegio

Nella prima parte della presentazione del libro di monsignor Leuzzi, padre Yanez ha commentato l’Evangelii gaudium di papa Francesco.

Segue il testo del suo intervento:

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L’anno santo del 1975 si concluse con la Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI, nella commemorazione del 10° anniversario della Chiusura del Concilio Vaticano II, dopo il Sinodo dei Vescovi sull’evangelizzazione dell’anno precedente.

A 50 anni del Concilio, Francesco ci propone una nuova «Evangelii nuntiandi», nello solco di quella paolina, riaffermando e radicalizzando la prospettiva della gioia che era già presente in essa. Posso dire quanto era cara a Padre  Bergoglio questa esortazione apostolica! C’è l’ha fatta studiare e meditare quando eravamo ‘scolastici” a San Miguel e Lui il nostro Rettore.

C’è l’ha fatta vivere quando ci  inviava alle borgate vicine al ‘Colegio Maximo’, il nostro centro di studi e la nostra casa. Andavamo a visitare le case, a cercare i bambini per la catechesi, ai giovani e agli adulti, agli anziani, alle famiglie per partecipare alla messa domenicale e a tante altre attività che si organizzavano con la gente e per la gente.

Tutta la nostra attività aveva due pilastri attorno cui si svolgeva la nostra vita giovanile: la preghiera e l’attività missionaria. Ciò che anni dopo il Documento di Aparecida, nella quale redazione il Cardinale Bergoglio ebbe un ruolo fondamentale, ha espresso, sotto la guida e l’ispirazione di Benedetto XVI: essere ‘discepoli-missionari’.

Discepoli nell’ascolto del Maestro interiore, missionari nell’annuncio della Parola che ci portava ad esser servitori dei poveri. Appunto, una preferenza che scaturiva dall’apertura alla Parola e dall’apertura alla realtà nella quale eravamo immersi e alla quale rendevamo il nostro contributo per renderla più umana, più abitabile: la mensa per i bambini poveri, e le scuole per bambini e per i giovani, erano le opere che tentavano di fomentare lo sviluppo umano come prolungamento dell’evangelizzazione.

Erano gli anni ottanta, ancora sotto l’ondata delle ideologie che hanno permeato le nostre società latinoamericane, la nostra società argentina. Erano anni di un grande idealismo, il quale portò tanti giovani ad impegnare la loro vita nella lotta per una società più giusta, ma alcuni, impazienti, intrapresero il cammino della violenza andando a sostenere o addirittura a integrare i gruppi armati delle guerriglie.

Altri, invece, sotto la copertura dell’ideologia della ‘Seguridad nacional’, provocarono con il suo appoggio oppure il suo contributo, una crudele repressione andando a integrare un esercito manipolato dai poteri economici e politici, che senza la partecipazione della giustizia, fecero “giustizia” per conto loro, andando contro i diritti fondamentali dell’uomo, contro la patria che dicevano di servire, per servirsi da essa.

In quel contesto di società divisa, ferita, confrontata, anni dopo il nuovo Arcivescovo di Buenos Aires Jorge Bergoglio,  che aveva assunto da poco l’incarico pastorale subito dopo la morte del suo predecessore, richiamava ad una «cultura dell’incontro», cioè, del dialogo, dell’ amicizia civile. Un appello che pronunciava nelle omelie del “Te Deum” annuale per l’anniversario dell’indipendenza, nelle giornate di pastorale sociale organizzate dall’Arcivescovato di Buenos Aires con la partecipazione delle forze politiche e della cittadinanza, dei fedeli, convocati dal suo pastore per dialogare sui temi dell’agenda sociale e politica della città e del paese.

Non si trattava di idee da tavolino, ma di una proposta concreta, ispirata dal magistero di Paolo VI, già nella sua enciclica programmatica Ecclesiam suam, di una Chiesa in dialogo ‘ad intra’ e ‘ad extra’  ispirata da Dio nella sua volontà salvifica, impostata come dialogo con l’uomo come viene presentata nella Costituzione dogmatica Dei verbum.

Queste poche pennellate servono per cercare di capire un po’ il contesto culturale e politico del pensiero di Jorge Bergoglio, pochi mesi fa sconosciuto nel mondo, tranne nel nostro paese, anche se la sua figura, tal volta controversa per alcuni, si ergeva in uno stile di estrema riservatezza, e proprio per questo richiamava l’attenzione delle menti più acute.

Infatti, subito dopo la sua elezione alla Cattedra di Pietro, abbiamo sentito un coro di voci che si alzavano da tutta la città di Buenos Aires e dell’area metropolitana, soprattutto dove lui abitò per tanti anni, condividendo ciò che il ‘Padre Jorge’ aveva fatto: tantissime sue opere di misericordia, di amore, di impegno per i più poveri, per quelli che si trovavano in qualsiasi situazione difficile, in tanti problemi a cui egli era venuto incontro con una parola, con la sua presenza, con ciò che faceva per trovare una consolazione, rendere un servizio, trovare una soluzione a un problema.

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ZENIT Staff

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