Il premio dell'uomo è una speranza vera

Papa Francesco su “Time” (a Natale)

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Papa Francesco avrà accolto con un sorriso la notizia che la prestigiosa rivista Time lo ha riconosciuto “Personaggio dell’Anno” 2013: un sorriso certamente non di compiacimento, ma di tenerezza, avvertita di fronte al bisogno universale di amore che questa notizia conferma. Perché è l’amore ciò che Francesco annuncia con le sue parole comprensibili a tutti e con i gesti del suo affetto per ciascuno, specialmente per i poveri e i piccoli.

Proprio così questo Papa ci fa riscoprire messaggi antichi e tuttavia nuovissimi, di cui più che mai abbiamo tutti bisogno. È come se la grande famiglia umana cogliesse in lui la risposta a un’attesa, quella che da secoli la liturgia cristiana ravviva specie nel tempo dell’Avvento. L’attesa è forse il sentimento dominante in questo tempo di crisi, in una mescolanza di desiderio e di assenza, di proiezione in avanti e di faticosa tensione fra l’oggi sperimentato e il domani sperato. Provo a riflettere su quest’attesa partendo dalla voce di un poeta del secolo scorso, Renzo Barsacchi, nei cui versi fede e poesia s’incontrano in modo spesso struggente.

Nella lirica intitolata Tu puoi soltanto attendere egli richiama il cammino che ogni amore porta con sé, fatto di aspettativa inseparabilmente timorosa e gioiosa. Con questi versi Barsacchi evoca forse anche le stagioni d’attesa che hanno percorso il nostro Novecento, fra speranze utopiche, visioni ideologiche e dolorose smentite, fino a concludere che il domani sperato non è quello che diviene in noi, quanto piuttosto quello che viene a noi, raggiungendoci come sorpresa e come dono: “Il tempo è incerto. In bilico il sereno / e la pioggia. Ma né l’uno né l’altro / dipendono da te. / Tu puoi soltanto attendere, scrutando / segni poco leggibili nell’aria. / Ti affidi al desiderio / ascoltando il timore. Le tue mani / sono pronte a difendersi e ad accogliere. / Così non sai quando Dio ti prepari / una gioia o un dolore e tu stai quasi / origliando alla porta del suo cuore, / senza capire come sia deciso / da quell’unico amore, / lo splendore del riso o delle lacrime” (Marinaio di Dio, Nardini, Firenze 1985, 74).

La proiezione delle speranze ideologiche è qui rovesciata, come la storia del secolo scorso ha dimostrato: l’avvenire promesso non è mai soltanto il frutto delle nostre mani, legato al calcolo di ciò che è possibile oggi e sarà realizzato domani. L’attesa è desiderio e timore, poiché ciò che viene è sempre fasciato dalla duplice aura del dolore o della gioia, del riso o delle lacrime. Barsacchi vede decisivo in questo apparente gioco del destino il ruolo di un Altro, il Dio di “quell’unico amore”, misteriosamente tale sia quando abbatte, che quando consola. L’attesa più profonda è, insomma, quella di Dio.

A confermarlo è la domanda che nasce nel cuore di tutti di fronte alla sofferenza e alla morte. È l’inquietudine che ci rende pensanti, poiché se non ci fosse la morte non ci sarebbe neanche il pensiero: vivere è imparare a morire, accogliendo la sfida silenziosa e resistente dell’ultimo silenzio, cui dare un senso o rinunciare a sperare. Chi cerca evasioni o consolazioni a buon mercato tenta un’inutile fuga. È quanto fa la presunzione epicurea che dice: “Quando ci sarà la morte io non ci sarò e finché ci sarò io, essa non c’è”. Queste parole – che il consumismo edonistico ha contrabbandato come plausibile filosofia di vita – sono soltanto un inganno, perché la morte non è solo l’ultimo atto, ma un’imminenza che sovrasta ogni momento, affacciandosi nella fragilità, nell’esperienza del limite, nelle domande profonde che nascono come ferite ineludibili e sempre aperte.

Sono le domande di tutti, più o meno evase o accettate: che ne sarà di me? Che senso avrà il mio esistere? Dove andrò con il bagaglio delle mie pene e delle mie gioie? E quando avrò finalmente conquistato ciò che desidero, che cosa ancora potrò desiderare se non l’ultima vittoria, quella sulla morte? Giunti a considerare il fondo verso cui andiamo, proprio da esso ci viene un contraccolpo, il bisogno di lottare per vincere l’apparente trionfo della morte. È quest’analisi a mostrare come noi siamo al tempo stesso “gettati verso la morte” (Martin Heidegger) e fatti per la vita. Se non ci fosse questo contrasto, accetteremmo il bacio mortale come ovvio, senza cercare di dare un senso a quanto siamo e facciamo. Proprio il fatto che la morte ci renda pensosi e sia prepotente in noi il bisogno di trovare un significato alle opere e ai giorni, proprio la sete di un amore più forte della morte, è il segno che nel profondo del cuore, pellegrini verso la morte, siamo chiamati alla vita. In questo richiamo si affaccia l’indistruttibile nostalgia di Qualcuno, che accolga il nostro dolore e le nostre lacrime, che redima l’abbraccio del nulla: è la “nostalgia del Totalmente Altro”, di cui già nel tempo dell’ideologia parlavano pensatori come Max Horkheimer e Theodor W. Adorno.

Quando siamo soli o disperati, quando nessuno sembra volerci più e noi stessi abbiamo ragioni per rammaricarci, si profila in noi l’attesa di un Altro che possa accoglierci, farci sentire amati al di là di tutto, nonostante tutto, vincendo l’ultimo nemico che è la morte. Volenti o no, siamo prigionieri della speranza! È sull’onda di questa nostalgia che va profilandosi l’immagine dell’Atteso, di Qualcuno cui poterci affidare, come un approdo dove far riposare la nostra insicurezza e il nostro dolore, fiduciosi di non essere rigettati nell’abisso della morte. In quanto tale, la figura del Dio che viene, Signore dell’avvento, è al tempo stesso grembo, patria, origine cui rimettere tutto ciò che noi siamo. Insomma, se nel profondo del cuore tutti siamo abitati dall’angoscia della sfida suprema e se questo ci rende pensosi, se la vita diventa una lotta per vincere la morte, allora l’immagine dell’Onnipotente che accetta di farsi debole per amore nostro è quella di cui abbiamo tutti infinitamente bisogno. È l’immagine del Dio di misericordia che Papa Francesco ha saputo trasmettere, con l’umiltà del cuore e la gioia di sentirsi amato lui per primo da questo tenerissimo Amore.

L’attesa si rivela desiderio dell’Altro, e in chi crede il desiderio si fa preghiera, quella cui danno voce i canti dell’Avvento, venati della malinconia del non ancora posseduto e della fiducia di quanto già ci è stato donato, i canti della speranza vittoriosa: “Rorate cœli desúper, et nubes plúant justum… véniet salus!” – “Stillate, cieli, dall’alto e le nubi facciano piovere il giusto… la salvezza verrà!” (cf. Isaia 45,8). È avvento nel cuore della Chiesa, ma lo è anche nel cuore del mondo, ferito e reso vivo dall’attesa, al di là di ogni rinuncia o disincanto. E il riconoscimento di Papa Francesco come “personaggio dell’anno” ce lo conferma in maniera forse inaspettata, ma tutt’altro che infondata.

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Fonte: Il Sole 24 Ore, domenica 15 dicembre 2013 (pp. 1 e 16)

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Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

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