Riportiamo di seguito l’intervento introduttivo che l’arcivescovo Dominique Mamberti, Segretario per i Rapporti con gli Stati, ha tenuto ieri, venerdì 13 dicembre, presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma, nell’ambito della Conferenza organizzata dalla Georgetown University”di Washington sul tema: “Cristianità e libertà: prospettive storiche e contemporanee”.
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Distinti Relatori,
Signori e Signore,
desidero anzitutto ringraziare il Prof. Thomas Farr, Direttoredell’Interreligious Project della Georgetown University, per il cortese invito che mi ha rivolto ad aprire i lavori di questa mattina con una breve introduzione sul tema centrale della conferenza, ovvero il rapporto tra cristiani e libertà religiosa. Si tratta di un tema importante e complesso, reso ancor più attuale dal contesto storico globalizzato nel quale viviamo, al quale il Magistero recente ha dedicato particolare attenzione, a partire dalla Dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II, fino a giungere all’insegnamento del Santo Padre Francesco, il Quale mi ha incaricato di portarvi il Suo saluto e la Sua Benedizione.
Quando si parla di cristiani e di libertà religiosa è facile essere immediatamente portati a menzionare i casi, fin troppo frequenti, in cui la libertà religiosa viene violata per intolleranza e discriminazione – si pensi al recente caso della giornalista televisiva, rimossa dall’incarico perché indossava al collo una piccola croce – o per le più gravi situazioni di vera e propria persecuzione. Duole purtroppo costatare che in molte parti del mondo, i cristiani sono resi oggetto di violenza, spesso costretti ad abbandonare la loro cultura e le terre che talvolta abitavano da secoli, non di rado perché privati dei loro diritti di cittadinanza, se non addirittura per le minacce all’incolumità fisica.
In questa sede vorrei però andare oltre una mera presentazione casistica, che alla fine non fa altro che addossare la colpa sui responsabili. Certamente «un discepolo non è di più del Maestro» (Mt,10, 24), e i cristiani non possono sperare che sia loro risparmiato nulla di quanto non sia già toccato al Signore stesso (Cfr. Gv 15, 20). Piuttosto, vorrei soffermarmi sulla relazione tra cristianesimo e libertà, anche per sfatare il mito erroneo e datato che il cristianesimo sia nemico della libertà personale e di coscienza e che la sua pretesa veritativa conduca necessariamente alla violenza e alla sopraffazione. Nulla sarebbe meno accurato storicamente di simili affermazioni. Lo dimostra il fatto che il concetto stesso di “diritti umani” è sorto in un contesto cristiano. Pensiamo a quel grande statista che fu san Tommaso Moro, il quale al prezzo della sua stessa vita ha mostrato che i cristiani sono proprio coloro che, illuminati dalla ragione e in virtù della loro libertà di coscienza, rigettano ogni sopraffazione.
Il legame tra cristianesimo e libertà è dunque originario e profondo. Esso affonda le proprie radici nell’insegnamento stesso di Cristo, trovando poi in san Paolo uno dei suoi più strenui e geniali promotori. La libertà è intrinseca al cristianesimo, poiché, come dice Paolo, «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi» (Gal 5,1). Naturalmente, qui l’Apostolo si riferisce primariamente alla libertà interiore di cui il cristiano gode, ma tale libertà interiore ha naturalmente anche delle conseguenze sociali. Quest’anno ricorre il mille settecentesimo anniversario dell’Editto di Milano, che segna il coronamento dell’espandersi sociale della libertà interiore affermata da san Paolo. In pari tempo, dal punto di vista storico e culturale, l’Editto segna l’inizio di un cammino che ha caratterizzato la storia europea e del mondo intero e che ha portato lungo i secoli alla definizione dei diritti umani e all’affermazione della libertà religiosa quale «primo dei diritti umani, perché esprime la realtà più fondamentale della persona»1 e come « cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri»2.
Costantino intuì che lo sviluppo dell’Impero dipendeva dalla possibilità per ciascuno di professare liberamente la propria fede. Più ancora che il frutto di un intelligente calcolo politico, l’Editto di Milano fu un grande passo di civiltà. Esso non solo riconobbe un diritto fondamentale, né si limitò a garantire la libertà di culto ai Cristiani, ma anzitutto affermò che la libertà religiosa è un fattore di stabilità civile e di creatività sociale. «Il suo rafforzamento – notava Benedetto XVI – consolida la convivenza, alimenta la speranza in un mondo migliore, crea condizioni propizie per la pace e per lo sviluppo armonioso e, contemporaneamente, stabilisce basi solide sulle quali assicurare i diritti delle generazioni future»3. Ciò perché «il diritto alla libertà religiosa, sia nella sua dimensione individuale sia in quella comunitaria, manifesta l’unità della persona umana che è, nel medesimo tempo, cittadino e credente»4.
La storia mostra che vi è un circolo virtuoso fra l’apertura al trascendente caratteristica dell’animo umano e lo sviluppo sociale. Basti considerare il patrimonio artistico mondiale, e non solo quello di matrice cristiana, per comprendere la bontà di tale nesso. La limitazione della libertà religiosa risulta perciò nociva per la società, come pure per ogni singolo uomo nelle esigenze e aspirazioni più vere che lo costituiscono, quelle che i Medievali chiamavano i trascendentali dell’essere: la verità, la bontà e la bellezza. L’esercizio della libertà religiosa si lega indissolubilmente a queste parole. Infatti, laddove l’uomo non può aprirsi all’Infinito secondo la propria coscienza, la verità cede il passo ad un menzognero relativismo e la giustizia al sopruso dell’ideologia dominante, sia essa atea, agnostica o addirittura connotata religiosamente.
A questo punto occorre, però, fugare un equivoco nel quale è facile incorrere, poiché la parola “libertà” può essere interpretata in molti modi. Essa non può essere ridotta al mero libero arbitrio, né intesa negativamente quale assenza di legami, come purtroppo accade nella cultura di oggigiorno. Al riguardo, è bene rammentare le parole di Benedetto XVI: «Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una ‘identità’ da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre ‘volontà’, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre ‘ragioni’ o addirittura nessuna ‘ragione’». Conseguentemente, il corretto esercizio della libertà religiosa non può prescindere dalla mutua interazione di ragione e fede, che assicura una corrispondenza fra il “ruolo correttivo della religione nei confronti della ragione”5e il ruolo «purificatore e strutturante della ragione all’interno della religione»6. Ciò costituisce allo stesso tempo l’argine contro il relativismo, come pure contro quelle forme di fondamentalismo religioso, che vedono, esattamente come il relativismo, nella libertà religiosa una minaccia per la propria affermazione ideologica.
Quando il Concilio Vaticano II ha affermato il principio della libertà religiosa non ha proposto una dottrina nuova. Al contrario, ha ribadito una comune esperienza umana, ossia che «tutti (…), in quanto persone, dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura (…) tenuti a cercare la verità»7. Allo stesso tempo ha riaffermato un principio antico, ovvero che «gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte (…) di qualsivoglia potere»8. T
ale è dunque la radice della libertà religiosa. Ed è anche per questa ragione che essa costituisce un “problema” nei dibattiti internazionali, dove è frequentemente ridotta all’analisi di singole casistiche contingenti, piuttosto che essere trattata alla pari delle altre libertà fondamentali. Implicito in tale approccio vi è il rifiuto deliberato di riconoscere ogni possibile pretesa veritativa nell’esistenza umana. Sia tale rifiuto di matrice relativista o fondamentalista poco importa, poiché entrambi sono contraddistinte da un comune denominatore: la paura, che sorge dall’iniquità che ottenebra il bene (Cfr. Sap 4, 11-12) e corrompe il cuore. Come ho menzionato poc’anzi, la visione cristiana è radicalmente diversa. Essa non è dominata dalla paura, bensì dalla gioia della verità che rende liberi (cfr. Gv 8, 32). È nella verità vista non tanto quanto assoluto che già possediamo, quanto piuttosto come possibile oggetto di conoscenza razionale e relazionale9 che troviamo la possibilità di un sano esercizio della libertà. Ed è proprio in tale nesso che troviamo l’autentica dignità della persona umana.
Distinti Relatori,
Signori e Signore,
in questi giorni avrete modo di riflettere approfonditamente sul problema del nesso tra la libertà religiosa e il cristianesimo. Il mio desiderio era quello di fornire una cornice dentro la quale collocare il vostro percorso, che confido contribuirà in qualche modo a stimolare una più viva coscienza dell’importante ruolo sociale della religione, nella prospettiva di quello “spirito costantiniano”, il quale ha permesso l’insorgere di quella consapevolezza della dignità della persona che è ormai patrimonio comune dell’umanità.
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NOTE
1 BENEDETTO XVI; Discorso ai Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 9 gennaio 2012.
2 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti all’Assemblea Parlamentare dell’OSCE, 10 ottobre 2003.
3 BENEDETTO XVI, Omelia nella Plaza de la Revolución, L’Avana, 28 marzo 2012.
4 Ibidem.
5 BENEDETTO XVI, Messaggio per la celebrazione della LXIV Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2011, n.3.
6 BENEDETTO XVI, Incontro con le Autorità civili del Regno Unito, Westminster Hall, Londra, 17 settembre 2010.
7 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Dichiarazione sulla libertà religiosa “Dignitatis humanae”, n.2.
8 Ibidem.
9 Cfr. FRANCESCO, Lettera a chi non crede, 4 settembre 2013.
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