La vita tranquilla dello hobbit Bilbo Baggins viene interrotta all’improvviso quando il mago Gandalf lo coinvolge nella spedizione di un gruppo di nani, guidati dal principe in esilio Thorin Scudo di quercia, per riconquistare il regno perduto sotto la montagna di Erebor, ora occupato dal drago Smaug.</p>

Bilbo, inizialmente riluttante, decide infine di rispondere al richiamo dell’avventura, ma non sa che lo aspettano pericoli immensi, tra attacchi di orchi e troll, lupi mannari e minacce ancora più oscure che nascono dall’ombra, mentre un anello misterioso lo attende nelle viscere di una montagna 

Si può affermare senza molti dubbi che questo nuovo adattamento di una delle opere più amate di J.R.R. Tolkien, nonché prequel (scritto però molto prima, in un’epoca in cui il concetto nemmeno esisteva) de ‘Il signore degli anelli’, fosse uno dei film più attesi dell’anno da schiere di fan non solo cinematografici ma anche lettori di lunga data del grande scrittore inglese. Un’attesa durata nove anni (tanti ne sono passati dall’ultimo episodio della trilogia precedente, premiata con 11 Oscar) e che per forza di cose rischia di andare un po’ delusa.

Prima di tutto perché a vedere dall’avvio un po’ “diesel” di questo primo episodio (oltre due ore, ne sarebbero forse bastate meno, anche se il ritmo della seconda parte fa perdonare la lentezza della prima) l’idea di espandere addirittura in tre film un volume di poco più di trecento pagine sembra più il frutto dell’avidità che contraddistingue ormai i produttori di grandi blockbuster fantasy (vedi casi ancora più imbarazzanti di Harry Potter e Twilight) che di una reale necessità narrativa.

E poi perché il 3D (in alcune proiezioni ulteriormente “migliorato” da un tipo speciale di ripresa a 48 fotogrammi al secondo anziché gli usuali 24), a volte anziché aumentare l’effetto di immersione nella Terra di Mezzo rende meno reali e drammatici i bellissimi paesaggi in cui la storia di svolge.

Fatta la tara di questi “difetti”, che impediscono alla nuova avventura firmata da Peter Jackson di raggiungere il livelli di vero e proprio capolavoro della trilogia precedente (non a caso premiata sia dal pubblico che dalla critica e capace di superare i limiti di un “genere”, il fantasy, che respinge almeno quanto attrae), lo Hobbit resta comunque un gran bel film, capace di coinvolgere ed emozionare e graziato dal solito meraviglioso cast.

Oltre a Ian Mckellen, una certezza nei panni di Gandalf (nonostante il nuovo illustre doppiatore, Gigi Proietti, rischi di essere un po' invadente), e le vecchie conoscenze, Kate Blanchett (Galadriel), Christopher Lee (Saruman) e Hugo Weaving (Elrond), a spiccare è il protagonista Martin Freeman (noto al pubblico televisivo per l’originale The Office e più di recente come Watson di un fortunato adattamento di Sherlock Holmes), che con la sua affabilità e simpatia incarna in maniera perfetta lo hobbit titolare, che vive nel suo confortevolissimo buco, preoccupandosi di verdure da concorso (come i protagonisti dei libri di Woodhouse), centrini della mamma e dispense ben fornite, ma che saprà trovare in se stesso il cuore e il coraggio di un vero eroe.

Altrettanto riuscito il Thorin di Richard Armitage, un principe nano senza regno e prigioniero di una grandezza perduta, ansioso di ritrovare la sua patria e il suo onore, un vero eroe tragico (e non temiamo qui di rivelare qualcosa di troppo ai lettori) che, a dispetto della statura, ha la grandezza dei grandi personaggi della mitologia nordica e degli eroi de Il signore degli anelli, come lo sfortunato Boromir o Theoden, i cui combattimenti fatali sono visivamente (e astutamente) citati da Jackson e colleghe nel climax della storia.

Non sono gli unici arricchimenti che il team di sceneggiatori si permette pescando a piene mani oltre che nel libro maggiore anche nelle numerose appendici che Tolkien stesso elaborò per far rientrare la sua “favola per bambini” nello schema più esteso della sua mitologia della Terra di Mezzo. Altri elementi, il tesoro nascosto dei nani, le ricchezze maledette, il drago, e l’anello hanno risonanze wagneriane (i Nibelunghi e l’oro del Reno), ma anche altre provenienti dalle meno conosciute mitologie scandinave e dalla tradizione anglosassone (il Beowulf) che il professore oxfordiano conosceva a menadito e che rielabora in una forma organica e nuova per dare consistenza al suo mondo.

I nani di Tolkien e Jackson, però, sono molto meno arcigni di quelli della tradizione nordica: qui, al di là dell’amore per le ricchezze della terra, sono più simili a una banda di avventurieri senza patria, degli emarginati dal mondo, che un momento si possono abbandonare al cibo e alla bevute (saccheggiando senza falsi pudori la dispensa di Bilbo, ma rimettendogli poi in ordine le stoviglie) o farsi mettere “letteralmente” nel sacco da tre grossi troll, ma in altri lasciarsi andare all’autentica malinconia dei “senza patria”.

Questo sentimento di appartenenza (o nostalgia, che è l’altra faccia della stessa medaglia) ad un luogo da poter chiamare casa (che nell’inglese non a caso suona  home-land) è ciò che unisce profondamente il pantofolaio Bilbo agli esuli nani, ciò che alla fine di questo primo tratto di percorso riesce a trasformare l’eroe riluttante in un membro attivo e consapevole della compagnia.

Nel mezzo, però, Bilbo ha incontrato qualcosa di ancor più pericoloso e impegnativo ed è stato messo alla prova tanto sul coraggio e l’intelligenza quanto sulla pietà: nelle viscere delle montagne nebbiose, separato dagli altri e armato solo della sua piccola spada, si imbatte in Gollum e nel suo tesoro (l’unico anello di Sauron, ma lui ancora non lo sa),  salva la sua vita con un gioco di indovinelli degno della principessa Turandot e ne risparmia un’altra con un gesto che sarà ricco di ripercussioni su di lui ma anche su tutto il destino della Terra di Mezzo.

Questi momenti, che i lettori attendono con spasmodica impazienza, più di mille battaglie e sfide con mostri vari (ma il salvataggio finale ad opera delle aquile resta comunque bellissimo) o di simpatiche ma un po’ dispersive digressioni sullo stralunato mago Radagast (Saruman lo accusa di inventarsi le cose a causa della troppa dimestichezza con i funghi allucinogeni…), il primo a intuire le minacce oscure che preannunciano il ritorno di Sauron ed allarmare Gandalf.

La minaccia monta ma il concilio a Gran Burrone, quanto a mancanza di interventismo, assomigli ad un incontro della Società delle Nazioni agli albori del Nazismo; del resto non può essere che così visto che agli eventi de Il signore degli anelli mancano ancora decine di anni e il collegamento con la minaccia del drago resta un po’ teorico. Il tutto contribuisce comunque a rendere l’insieme probabilmente un po’ più cupo di quanto fosse il libro originale, che inizia, come qui citato, ma non subito, con “In un buco viveva un hobbit…” e poi riesce miracolosamente a mantenere lo stesso tono sospeso di commedia anche nei momenti più cupi, pur senza censurare tragedie e morte.

Concentrarsi sulle debolezze della pellicola, comunque, significherebbe fare gli schizzinosi di fronte ad un piatto imbandito e colmo  di bendiddio almeno quanto una dispensa hobbit e che ha da regalare soddisfazioni in quantità a chi aspettava da tanto tempo questo “viaggio in aspettato” ancora senza conclusione.

Titolo Originale: The Hobbit - An unexpected Journey

Paese: Usa, Nuova Zelanda

Anno: 2012

Regia: Peter Jackson

Sceneggiatura: Fran Walsh, Philippa Boyens, Peter Jackson, Guillermo Del Toro dal romanzo di J.R.R.Tolkien

Produzione: Peter Jackson, Fran Walsh, Carolynne Cunningham, Philippa Boyens per Metro-Goldwyn-Mayer/ New Line Cinema/Wingnut Films/3foot7

Durata: 160

Interpreti: Martin Freeman, Ian McKellen, Cate B lanchett, Ian Holm, Christopher Lee, Hugo Weaving, Andy Serkis, Orlando Bloom, Richard Armitage