Sì, questo è il modo con cui il dottor Santo Rullo, guida e gestisce Villa Letizia, nel quartiere di Monteverde, a due passi da Villa Pamphlili.
Si tratta di una comunità terapeutica e socio riabilitativa per persone che soffrono di disagio mentale.
Lo psichiatra Santo Rullo è il direttore e ha idee originali e rivoluzionarie su come costruire un futuro insieme a quelli che per gran parte della società sono considerati “matti”.
Nell’intervista concessa a ZENIT, il dott. Rullo ci ha raccontato degli anni passati da una clinica psichiatrica ad un’altra, ma l’esperienza ed il lavoro non gli bastavano, cercava qualcosa da costruire con metodi diversi.
È così che insieme ad alcuni amici ha preso in affitto un edificio delle suore Francescane Angeline, nel bel mezzo del quartiere di Monteverde Vecchio.
In questo edificio viene fornito un servizio accreditato e autorizzato dalla Regione per ragazzi e ragazze appena usciti dal carcere e che non si adattano negli ospedali psichiatrici giudiziari.
Si tratta di persone, per lo più giovani, che non trovano risposte e che in generale vengono respinte.
“Insomma – ha spiegato Rullo – ho cercato un lavoro dove incontrare le persone più sofferenti, quelle più crocifisse, con più problematiche”.
Sia in qualità di credente che di medico il direttore di Villa Letizia è impegnato a curare anime e menti, attento ad aiutare le persone che hanno più difficoltà.
“Il mio – ha precisato – non è un atteggiamento buonista, ma responsabile, nel senso che, soprattutto con i malati psichiatrici, non c’è cura senza integrazione”.
All’accoglienza, Rullo ha aggiunto due parole chiave: relazione e responsabilità. Relazione come cura amorevole, e responsabilità nel senso di far crescere in coscienza i pazienti.
Secondo lo psichiatra, il modello dominante quello che punta solo alla diagnosi e all’indicare un’etichetta che definisce in maniera riduzionista la persona, è disperante, perché non c’è cura, solo metodi per controllare il paziente.
“Mentre noi – ha sottolineato – pratichiamo un percorso in cui non cerchiamo etichette né colpe, ma persone con cui entrare profondamente in relazione”.
“Il sistema dominante – ha sostenuto Rullo – tende a distribuire le colpe. È colpa del medico o della società e questo deresponsabilizza i pazienti, mentre per noi è chiaro che solo costruendo una relazione possiamo manifestare l’amore che può cambiare l’altro. Noi alimentiamo la fiducia e lavoriamo sulla relazione”.
Attualmente a Villa Letizia sono circa 50 i pazienti residenziali. Alcuni di quelli che hanno finito il percorso, sono rimaste. Dall’essere ospiti sono diventati operatori.
Per il dottor Rullo, c’è un pregiudizio diffuso che da cui bisogna liberarsi. In genere la società ha paura di persone con malattie psichiatriche. Se uno vede una persona che si sente male si avvicina, mentre se vede una persona che parla da sola si allontana.
Molti fatti di cronaca nera sono immediatamente connessi a persone che sono stati in cura ai servizi psichiatrici.
Il dottor Rullo sostiene che il pregiudizio diffuso rende il lavoro ancora più difficile perché limita e complica la relazione. Mentre la relazione è fondamento per operare in funzione della vera inclusione e di una limitazione della discriminazione
Una delle strade che favorisce molto la relazione è praticare insieme un’attività sportiva.
A questo proposito il dottor Rullo ha citato esempi come il calcio sociale e la calcio-terapia.
L’esplosione della malattia mentale riduce la socialità, mentre il calcio favorisce il recupero di quel filo spezzato. “Con il calcio siamo riusciti a riagganciare la relazione”.
Nel calcio giocato, poi, c’è tutto quanto ci serve per sviluppare e migliorare la relazione.
C’è la comunicazione, il rispetto dei ruoli rispetto e delle regole, c’è l’onore, la lealtà, il rispetto dell’avversario, la corretta ompetizione ed anche il contatto fisico.
Abbiamo cominciato a giocare insieme ai ragazzi del servizio di salute mentale.
Poi, qualche anno fa è stato fatto un film-documantario con il titolo Matti per il calcio scritto e diretto da Volfango de Biasi e Francesco Trento.
Si racconta la storia della squadra di calcio del “Gabbiano” composta da quindici pazienti psichiatrici, un ex calciatore e uno psichiatra per allenatore.
C’è Marione, colpito dalla schizofrenia dopo un lungo viaggio in Oriente che diventa il bomber dal tiro micidiale. Il portiere silenzioso Valerio che spera di non ricadere nella droga. All’ala destra Benedetto che sente e parla con le “voci” e poi Sandro, l’ex poliziotto dei corpi speciali che diventa pittore e poeta.
Invece dei psicofarmaci, allenamenti e partite di calcio.
Considerando il tanto bene che lo sport può apportare, a livello locale si è sviluppata l’iniziativa del calcio sociale.
L’idea è nata nella parrocchia di Nostra Signora di Coromoto a Roma.
Per l’integrazione di tutte le diversità, per giocare tutti contro tutti, scarsi contro più dotati, per favorire che ha meno capacità, i ragazzi della parrocchia hanno cambiato le regole del calcio.
Tutti i ragazzi che vogliono partecipare al torneo fanno un provino e ricevono un punteggio.
Poi vengono organizzati i gruppi, con la condizione che il valore di punteggio deve essere uguale per tutte le squadre.
I calciatori più dotati non possono segnare più di tre goal a partita. Dopo il terzo goal gli altri segnati dal calciatore più capace non valgono. Se viene assegnato un rigore lo tira il componente della squadra con il coefficiente più basso.
Non esiste l’arbitro, ogni capitano fischia i falli che commette la propria squadra. Gli allenatori sono tutti educatori.
In questo modo ci si diverte a giocare a calcio e si educano tutti al rispetto ed alla cura dei più deboli.
“Questa sì – ha concluso il dott. Rullo – può essere una risposta alla violenza negli stadi, un ottima opportunità per favorire con la relazione, l’integrazione sociale e il superamento di ogni tipo di discriminazione”.