Riprendiamo di seguito l’editoriale firmato da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, pubblicato sull’edizione di domenica 1° dicembre del quotidiano Il Sole 24 Ore (pp. 1 e 15).
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Dopo la riflessione sulla fede proposta nell’Enciclica Lumen fidei, Papa Francesco presenta una sorta di manifesto programmatico del suo pontificato nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, pubblicata a poco più di un anno dal Sinodo sulla nuova evangelizzazione, a conclusione dell’Anno della Fede (24 Novembre 2013): “In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata dalla gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni” (n. 1). Motivo dominante di questo testo è appunto la gioia che, nell’auspicio del Vescovo di Roma, dovrà caratterizzare la vita e la missione della comunità ecclesiale nel tempo complesso in cui ci troviamo, oltre la crisi delle ideologie e l’insorgere della cosiddetta “modernità liquida”, priva di certezze e di orizzonti comuni. La ragione di questa scelta è così espressa: “Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata” (n. 2). A questo male dell’anima si offre come antidoto la gioia che l’incontro con Cristo può dare: “È la gioia che si vive tra le piccole cose della vita quotidiana, come risposta all’invito affettuoso di Dio nostro Padre: ‘Figlio, per quanto ti è possibile, tràttati bene … Non privarti di un giorno felice’ (Sir 14,11.14)”. Francesco commenta: “Quanta tenerezza paterna s’intuisce dietro queste parole!” (n. 4). Emerge qui un primo tratto della riflessione proposta dal Papa: un senso di larga, profonda, delicata umanità. Con la voce di Francesco è la Chiesa del Vaticano II a parlare, tutt’altro che dirimpettaia del mondo, vicina alle gioie, ai dolori e alle speranze degli uomini, ricca della fede nel suo Signore. Non per questo il Papa ignora la contro-testimonianza resa a volte dai credenti o la serietà delle sofferenze di tanti: ma la gioia del Vangelo resta più forte, perché è radicata nell’amore di Colui, che non lascia mai solo chi in lui confida. “Grazie a quest’incontro – o reincontro – con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità” (n. 8). Nel vivere e proporre la gioia della buona novella non siamo soli: l’iniziativa è di Dio, che ci raggiunge e ci ama attraverso la compagnia del Suo popolo, pellegrino nel tempo. “Tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo. I cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile. La Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione” (n. 14).
La missione di testimoniare così la gioia del Vangelo appartiene all’insieme del popolo di Dio, e non va legata a una sola persona, fosse pure quella del Papa: “Non credo che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo. Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare decentralizzazione” (n. 16). Francesco sceglie, perciò, di soffermarsi solo su alcuni temi, che avverte fra i più urgenti: la riforma della Chiesa “in uscita”; le tentazioni degli operatori pastorali; la Chiesa come totalità del Popolo di Dio che evangelizza; l’omelia e la sua preparazione; l’inclusione sociale dei poveri; la pace e il dialogo sociale; le motivazioni spirituali per l’impegno missionario. Occorre “uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo” (n. 20). Una Chiesa “in uscita” prende l’iniziativa, si coinvolge, accompagna: essa “accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno odore di pecore e queste ascoltano la loro voce” (n. 24). Perché questo avvenga, c’è bisogno di una conversione pastorale, alla quale il Vescovo di Roma non esita a chiamare la Chiesa tutta: “Ciò che intendo qui esprimere ha un significato programmatico e dalle conseguenze importanti. Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno” (n. 25). Il richiamo è al Vaticano II e all’Evangellii Nuntiandi di Paolo VI, il documento che rilanciò con straordinaria lucidità l’impegno missionario della Chiesa (1975). L’appello si fa concretissimo, divenendo stimolo alle comunità dei credenti a stare vicine alla gente, a essere la casa di tutti (cf. n. 28). Tutti devono rispondere all’urgenza di questa conversione: “Anche il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’appello a una conversione pastorale… Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria” (n. 32). Anche nella forma dell’annuncio è necessario un cambiamento: occorre riscoprire il senso pastorale della dottrina della “gerarchia delle verità”, di cui parla il Concilio, evitando sproporzioni nell’accentuare alcuni temi a scapito di altri e facendo in modo che non si perda mai di vista il cuore e il profumo del Vangelo (nn. 34-39). Soprattutto nel campo dei precetti bisogna avere grande moderazione, “per non appesantire la vita ai fedeli e trasformare la nostra religione in una schiavitù, quando la misericordia di Dio ha voluto che fosse libera” (n. 43). Non si deve mai dimenticare, poi, che “a tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute” (n. 44).
L’appello di Francesco si fa accorato nel chiedere una Chiesa dalle porte sempre aperte: “Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti… Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata” (n. 49). Importanti sono i “no” che Papa Francesco sottolinea perché avvenga la conversione al Vangelo: il no a un’economia dell’esclusione e dell’ineguaglianza, che privilegi alcuni e consideri “scarti” altri, soprattutto i più deboli, in un’impressionante “globalizzazione dell’indifferenza” (n. 54); il no all’idolatria del denaro, che governa invece di servire, come è avvenuto nel prodursi della crisi economica mondiale (n. 56); il no all’ineguaglianza che genera violenza. Papa Francesco sottolinea, poi, la corresponsabilità di tutti nella Chiesa, con speciale attenzione all’impegno dei laici e al ruolo delle donne: se per gli uni si deve puntare a una crescita nella formazione e nella partecipazione, per le altre non esita ad affermare che “c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa… nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti” (n. 103). Un’attenzione peculiare è riservata a quella voce del dialogo di Dio col suo popolo, che è l’omelia: essa non ha bisogno di lungaggini, dovendo piuttosto annunciare con semplicità la gioia del Vangelo. La Chiesa è madre e deve predicare “al popo
lo come una madre che parla a suo figlio, sapendo che il figlio ha fiducia che tutto quanto gli viene insegnato sarà per il suo bene perché sa di essere amato” (n. 139). Infine, Papa Francesco ritorna sul rapporto fra annuncio del Vangelo e vicinanza ai poveri, mostrandone l’intrinseca necessità. Potrà evangelizzare credibilmente solo una Chiesa che sia “povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci… Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro” (n. 198). L’annuncio della gioia del Vangelo avrà tanta più forza, quanto più lo si coniugherà al dialogo con tutti e sarà nutrito dall’amore alla gente: “Per condividere la vita con la gente e donarci generosamente, abbiamo bisogno di riconoscere anche che ogni persona è degna della nostra dedizione… Al di là di qualsiasi apparenza, ciascuno è immensamente sacro e merita il nostro affetto e la nostra dedizione” (n. 274). La fedeltà al cielo si coniuga così alla fedeltà al mondo presente, per divenire un’unica, esigente fedeltà: quella cantata da Maria nel Magnificat; quella che fa di lei l’esempio più alto e credibile dell’esperienza e dell’annuncio della gioia del Vangelo.