Il porporato ha spiegato che l’espressione “Credo la remissione dei peccati” è un’antica professione di fede, di origine romana, che la tradizione vede legata all’annuncio degli Apostoli stessi, e che ha raggiunto la sua formulazione definitiva già nel II secolo, anche se lievissime variazioni nel testo possono essere avvenute fino all’epoca carolingia.
Nella sua radice, il Simbolo degli Apostoli rappresenta una straordinaria forma di professione della fede, ha detto inoltre il cardinale, ricordando che “Cristo effuse il dono dello Spirito Santo sugli Apostoli vincolando tale effusione alla remissione delle colpe commesse dagli uomini”.
Indicando nel Battesimo “la prima e principale forma di remissione dei peccati ad opera dello Spirito Santo”, Piacenza ha poi affermato che Battesimo e Penitenza sono intimamente connessi, al punto tale che quest’ultima è stata spesso indicata quale “secondo Battesimo” o anche “Penitenza seconda”, con riferimento alla prima Penitenza, quella battesimale.
Per questo Papa Francesco ha chiesto ai fedeli se conoscessero il giorno in cui erano stati battezzati, in modo da festeggiarlo come si fa con il compleanno. “Quando noi andiamo a confessarci delle nostre debolezze, dei nostri peccati – ha detto il Pontefice – andiamo a chiedere il perdono di Gesù, ma andiamo pure a rinnovare il Battesimo con questo perdono. E questo è bello, è come festeggiare il giorno del Battesimo in ogni Confessione”.
Secondo il Penitenziere Maggiore, battesimo e confessione riaprono le porte che si erano socchiuse a causa delle nostre debolezze. “Il lasciarsi perdonare da Dio, il lasciarsi amare dall’amore divino che purifica, è dimensione fondamentale del nostro essere cristiani e, in particolare, dell’essere sacerdoti” ha sottolineato. Ed ha aggiunto che un prete “che non si lascia riconciliare con Dio, difficilmente potrà essere un buon riconciliatore degli uomini con Dio”.
“Nel sollevare la mano benedicente e nel pronunciare la prescritta formula di assoluzione – ha proseguito il porporato – il sacerdote non fa altro che prestare il suo corpo e la sua voce al Signore stesso, il quale irrora l’anima del penitente con i meriti del suo preziosissimo Sangue espiatorio: quel Sangue che – assieme all’acqua, simbolo battesimale – sgorgò dal suo sacro costato in croce”.
Inoltre, ha precisato il cardinale, la confessione non è lavoro di routine, tantomeno una “consulenza psicologica”, bensì “mistero della fede” e “segno sacramentale”. “E’ necessario ricordare che il sacerdote, in confessionale come in altri ambiti del suo ministero – ha ribadito – non parla a nome proprio, ma a nome di Cristo e della Chiesa, di cui è umile ministro”. E proprio questa parola, derivante dal latino minister, indica infatti il servo, “colui che è a servizio”.
Come umili lavoratori nella vigna del Signore – ha aggiunto Piacenza – “non siamo chiamati a reinventare la dottrina e la morale, ma al contrario siamo onerati dal dovere di orientare le coscienze alla luce di esse”. Ha quindi esortato i sacerdoti a rendersi disponibili al massimo per ascoltare le singole confessioni dei fedeli: “È altamente auspicabile che ogni giorno vi sia un sacerdote che segga in confessionale, possibilmente anche ad orari stabiliti, in modo che i fedeli possano vederlo lì, in attesa delle anime da riconciliare con Dio”.
“L’esperienza – ha concluso il Penitenziere Maggiore – insegna che i fedeli si recano volentieri a ricevere questo sacramento laddove sanno e vedono che vi sono sacerdoti disponibili. Inoltre, non si trascuri la possibilità di facilitare ai singoli fedeli il ricorso al sacramento della Riconciliazione e Penitenza anche durante la celebrazione della Santa Messa”.