Interrogarsi sulla relazione che intercorre tra religioni e sistemi artistici può aprire un vasto dedalo di strade, articolate in riflessioni su aspetti spesso poco scandagliati dell’arte, della sua storia, delle sue teorie, e in ultimo anche dell’arte sacra in quanto tale.
In questo contesto, ci domandiamo se sia possibile pensare in termini dinamici i sistemi artistici, ovvero i sistemi artistici sono capaci di entrare in profonda relazione con altri sistemi e da questi apprendere forme diverse?
È indubitabile che ogni sistema d’arte esprima una visione del mondo, e che un’opera d’arte sia veramente comprensibile solo se inserita nel suo contesto, e ciò vale per l’arte cristiana, quanto per l’arte dei popoli non-occidentali; vale anche per il mito, comprensibile solo entro una complessa visione in cui trova significato.
Spesso assistiamo ad eventi che vengono descritti come epocali, che sembrano apparentemente aprire a mondi lontani, ma di fatto non scalfiscono che la superficie delle cose esposte. Come scrisse qualche anno fa Cecilia Gatto Trocchi, «L’amore per l’arte “primitiva” degli occidentali è privo di profondità in quanto privilegia qualcosa che non esiste, ovvero l’incomprensibilità delle opere d’arte “così straordinariamente astratte”. L’arte dei popoli non occidentali è comprensibilissima una volta conosciuto a fondo il sistema d’idee che esprime.
L’occidentale, privato di un sistema di riferimento unitario, scambia il linguaggio simbolico per incomunicabilità e crede che l’artista melanesiamo costruisca le sue maschere per amore del superfluo o per soddisfare la sua soggettività inquieta»[1].
Del resto anche Brelich guardando da un altro punto di vista i movimenti della cultura, ci indica un percorso illuminante affermando:«Solo l’etnologia moderna […] ha gettato piena luce sul fatto che per la giusta comprensione dei miti è indispensabile conoscere i precisi dettagli delle istituzioni, dei costumi e, in generale, la civiltà dei singoli popoli che li raccontano […] La mitologia di un popolo non consiste semplicemente in un certo numero di miti messi l’uno accanto all’altro, ma costituisce un insieme organico, di modo che normalmente è difficile o impossibile capire un mito isolato, senza conoscere l’intera mitologia in cui è inserito […] il mito, dunque, non spiega, per un bisogno intellettuale, le cose […]. ma le fonda, conferendo loro valore»[2].
Nel nostro mondo, che sembra aver annullato ogni distanza fisica, temporale e culturale, si è indotti a pensare che ogni forma sia disponibile, che ogni simbolo sia comprensibile e comunicabile, con la stessa superficialità e velocità del “nostro” mondo delle telecomunicazioni.
Apparentemente accade di sentirsi immersi in un mondo tutto comprensibile, perché connesso, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, ma in realtà spesso siamo disarmati di fronte ai miti, ai linguaggi e alle forme che incontriamo. Semplicemente non le comprendiamo, perché non conosciamo il codice linguistico, e neanche il contesto nel quale collocarle. Ci interessano perché esotiche e alla moda.
Così in realtà più che in un mondo connesso e dinamico, ci accorgiamo -se solo ci fermiamo a riflettere-, di trovarci in un grande contenitore dove tutto fluisce con grande velocità, ma senza che se ne comprenda il senso e il fine.
Quando si studia un opera d’arte, ci si deve porre per prima una domanda: “perché”, ovvero quale è la motivazione principale che spinge alla rappresentazione artistica, il motivo, l’idea che sottende. In altre parole, qual è la spinta culturale cui aderisce l’artefice, quale visione del mondo, quale ideologia lo motiva, o ancora a quale religione appartiene.
Un artista “olandese” dipinge cose profondamente diverse da quelle di un artista “fiammingo”, non solo perché sono diversi nelle tradizioni, ma anche perché vivono visioni religiose diverse e visioni del mondo tra loro distanti.
I loro dipinti lo testimoniano ampiamente: gli olandesi descrivono costantemente le loro case, il gruppo sociale di appartenenza, la collettività e gli oggetti preziosi che hanno acquistato con il loro commercio, come ha evidenziato la Alpers[3]; i fiamminghi invece hanno una visione mistica della propria realtà sociale e politica, che passa attraverso il rapporto personale con i santi, la Vergine Maria e Gesù; rimangono sempre dei mercanti capaci come gli olandesi, ma con una dimensione cattolica della realtà.
Grande artista è Vermeer, e grande artista è Jan Van Eyck, ma con sistemi di riferimento e visioni del mondo diverse tra loro, seppure entrambi figurativi in quanto cristiani. Questo emerge chiaramente nella dimensione della “luce”, come mette in evidenza Sedlmayr analizzando la Madonna nella Chiesa di Jan van Eyck e l’Arte della pittura di Vermeer; in entrambe le opere c’è una «spirituale trasparenza luminosa» ma in quella di Van Eyck «tutto ciò che è visibile acquista il suo pieno valore intuitivo soltanto nel rapporto simbolico [… ] la luce del giorno colma la chiesa così come la luce divina il grembo di Maria», mentre il quadro di Vermeer si fonda su «una mistica della luce secolarizzata»[4]
Legata e conseguente alla domanda “perché”, c’è la domanda “cosa”, cioè la domanda sull’oggetto che l’artista vuole rappresentare e poi, in fine occorre domandare “come”, cioè quale strumento è più adatto per raggiungere lo scopo[5].
Dunque, perché, cosa e come sono strettamente legati, ogni espressione artistica esprime un mondo di idee. Tra sistemi artistici e visione religiosa del mondo c’è sempre una stretta relazione: «L’arte nella sua più ampia manifestazione è legata non già a modalità universali dell’inconscio, ma a sistemi di pensiero. Ciò vale per l’arte dei popoli non occidentali, per l’arte medievale, per quella del XX secolo.
Una volta esaminati i sistemi di pensiero, gli ambiti culturali e simbolici in cui le forme artistiche si manifestano e si esprimono, è possibile tracciare un’ulteriore correlazione comparativa e identificare nei sistemi di pensiero specifici delle forme ricorrenti e addirittura universali»[1] C. Gatto Trocchi, Le Muse in azione, Ricerche di antropologia dell’arte, FrancoAngeli, Milano 2001, pp. 157-158 – corsivo aggiunto.
[2] A. Brelich, Introduzione all
a storia delle religioni, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1995, pp. 8-11.
[3] S. Alpers, L’arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese [1983], trad.it.,Bollati Boringhieri, Torino 1984, 1999.
[4] H. Sedlmayr, La Luce nelle sue manifestazioni artistiche [1960], Aesthetica, Palermo 2009, pp. 48, 44, 45.
[5]Cfr. R.Papa, Lo statuto epistemologico dell’arte. Riflessioni teoretiche in margine a Leonardo, in “Euntes Docete”, (2001) 1, pp. 159-173.
[6] C. Gatto Trocchi, Le Muse in azione, p. 21.