di José Antonio Varela Vidal
ROMA, lunedì, 27 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Poche persone come il cardinale Fernando Filoni, sono responsabili di quasi il 40% delle terre dove la Chiesa cattolica opera a livello mondiale, con circa un migliaio di vescovi sotto la sua giurisdizione.
Non tutti ricordano che egli, come Nunzio in Irak – ha deciso di stare insieme ai cattolici, al clero, ai religiosi ed ai Vescovi quando il Paese venne bombardato. Lo fece per assolvere alla missione in cui crede.
Eminenza, il Santo Padre le ha conferito quest’alta dignità. Come si sente?
I Prefetti della Congregazione di Propaganda Fide sono sempre stati cardinali. Come tale, la nomina non è stata una novità assoluta, anche se la notizia personalmente è stata ricevuta da me con quel senso di gratitudine e anche, come dire, d’indegnità rispetto alla dignità del cardinalato. Per cui credo che questo gesto del Santo Padre sia dovuto prima di tutto alla nostra Congregazione di cui io sono il Prefetto. In particolare riguarda, credo, tutti quei sacerdoti, quei missionari, quelle missionarie, religiose, religiosi, laiche e laici che quotidianamente spendono la loro vita per il Vangelo in tutti paesi e territori di nostra competenza. Sono persuaso che questo riconoscimento vada prima di tutto a loro.
Che significa la presa di possesso di una parrocchia per ogni cardinale?
Ogni cardinale ha un titolo. Il mio titolo si relaziona alla parrocchia di Nostra Signora di Coromoto in San Giovanni di Dio. Questo significa che un cardinale entra a far parte del clero di Roma e quindi, come tale, rispettando l’antichissima tradizione che vuole i cardinali membri della Diocesi del Papa, coadiuva il Sommo Pontefice nel ministero pastorale, nel ministero supremo di capo di tutta la Chiesa. L’essere legati ad una chiesa, ad una parrocchia, significa poi coinvolgere tutta la popolazione di appartenenza nella preghiera, nell’affetto, nel sostegno al ministero del Santo Padre; è una forma di coinvolgimento credo necessario, perché il Papa senta che la sua missione è sostenuta e amata da tutta la Chiesa, in particolare da questa comunità, da questa parrocchia concreta.
Il Papa vi ha dato l’anello cardinalizio con un nuovo disegno, vero?
Il disegno è stato voluto dal Santo Padre e mostra due figure, quella di San Pietro e quella di San Paolo, che come sappiamo sono i testimoni della fede qui a Roma. Dunque si tratta di un simbolo strettamente legato alla Sede Apostolica. Pietro con la sua fede, Paolo con la sua predicazione alle genti. Questi due aspetti si uniscono nella persona del Papa e naturalmente i cardinali partecipano di questa stessa realtà. Poi c’è una piccola stella che è proprio il simbolo della fede.
Il Papa nei suoi messaggi ha chiesto ai cardinali di non seguire la logica del mondo ma la logica di Gesù. Lei, come ha ricevuto questo messaggio?
Io credo che sia nello stile di Papa Benedetto. Lui ha sempre detto che la Chiesa non è fine a se stessa, la Chiesa è voluta da Gesù affinché gli uomini, conoscendo il Vangelo, possano conoscere Dio. La spiritualità è centrale nella missione di Papa Benedetto. Dunque richiamare i fedeli, i sacerdoti, i vescovi, nonché i cardinali a questa centralità mi sembra la cosa più bella, in linea proprio con il ministero pastorale di Benedetto XVI.
Che cosa intende il Pontefice Benedetto XVI quando pone enfasi nell’opera missionaria?
Il Papa dice che la Chiesa ha una missione, pertanto il suo centro e il suo orizzonte sono l’annuncio del Vangelo. Il Papa parte dal Concilio Vaticano II; così dopo cinquanta anni ci si pone una domanda: che cosa era la Chiesa missionaria cinquanta anni fa, che cosa è oggi la Chiesa missionaria? E qui naturalmente il Santo Padre, prendendo lo spunto da questo interrogativo, parla di un’ecclesiologia missionaria, posta dal Concilio al centro della riflessione di tutta la Chiesa: l’opera missionaria non più come azione di soli istituti religiosi, ma di tutta la Chiesa che vi partecipa. Pensiamo per esempio come siano stati coinvolti i laici: mentre prima erano un pò ai margini dell’attività missionaria, oggi ne sono diventati protagonisti. Anzi, diremo che, in un certo senso, venendo meno le vocazioni missionarie tradizionali, sono aumentate enormemente le vocazioni missionarie laicali. Quanti movimenti ormai vedono proprio nell’annuncio del Vangelo il centro della propria attività. Nel messaggio c’è un secondo punto: la priorità è l’annuncio del Vangelo, ben sapendo che oltre cinque miliardi di persone non lo conoscono. Il terzo punto è la fede e l’annuncio. Cioè non si può annunciare il Vangelo se non c’è una coerenza di vita, se non si ama la propria fede; da questo amore per la propria fede nasce il doverla comunicare; ecco, dalla ricchezza della conoscenza della propria fede proviene l’impulso per l’annuncio agli altri. Infine, l’annuncio che si fa carità. Cioè nel momento in cui io annuncio il Vangelo non sono indifferente agli altri, e di conseguenza mi faccio carico anche delle loro necessità materiali.
Ci sono tanti luoghi dove la Chiesa soffre, dove i suoi membri non possono professare la propria fede, perché perseguitati o espulsi dalla propria terra. In che modo la Chiesa guarda al martirio anche nel mondo di oggi?
Nel mio indirizzo di saluto e di ringraziamento al Santo Padre, domenica 19 febbraio, vi è un punto in cui ho detto che la porpora è segno di martirio, attraverso il quale la Chiesa passa sempre. Anche oggi nella Chiesa, per la fedeltà al suo Signore, non mancano il martirio, le tribolazioni e le persecuzioni di tanti suoi membri. Dunque sembra quasi connaturale che la vita della Chiesa non possa essere disgiunta da una testimonianza che a volte si tinge anche di porpora, di rosso, di sangue.
Molti ricordano il suo atteggiamento durante l’attacco all’Iraq, e anche quello di tutta la Chiesa, quando ha corso il rischio del martirio …
In quel momento non si pensa al martirio, si pensa ad essere fedeli sia alla missione che si è ricevuta, che era la missione che a quel tempo Papa Giovanni Paolo II mi aveva affidato, la pace, sia alla missione di tenere uniti i vescovi, sacerdoti e fedeli. Io ricordo sempre con molta commozione spirituale il modo con cui tutti i sacerdoti sono rimasti nelle loro parrocchie, nelle loro chiese; tanti aprivano la propria chiesa per cui la gente portava i propri materassi, le proprie coperte e trovava rifugio in esse, sperando che almeno quei luoghi fossero risparmiati dai bombardamenti. Nelle chiese trovavano rifugio non solo i cristiani ma anche i musulmani, con i quali si condividevano momenti di preghiera e di canto. Fu una testimonianza straordinaria, che rimane anche nella memoria dei nostri cristiani. Tutto questo, visto oggi, ci rammenta che, nonostante in Iraq i cristiani fossero una minoranza, hanno dato una testimonianza fantastica non solo a tutta la Chiesa, ma anche al popolo iracheno.
Parliamo di Cina, Nord Corea, Vietnam, dove i fedeli non possono esprimere liberamente la loro fede. Ci sono stati alcuni passi avanti in questi paesi?
Si tratta di società molto diverse dalle nostre, sia da un punto di vista politico, sia da un punto di vista culturale; la Chiesa in questi paesi è minoritaria. Dunque non s’impone per la forza numerica, ma ciò che la Chiesa chiede in questi luoghi è rivendicare quella libertà che è propria di ogni persona e naturalmente di ogni credente. La speranza non viene meno, anzi ci accompagna, altrimenti sarebbe inutile che noi lavorassimo per questo. E naturalmente insieme alla speranza crediamo nel dialogo a tutti livelli, nella reciproca comprensione, nel conoscere perché esistono determinate situazioni come queste. Auspichiamo che le difficoltà un giorno possano essere superate. La Chiesa assicura
i governi che non devono temere nulla dai cattolici. I cattolici sono uomini e donne che, professando la propria fede, divengono cittadini leali verso il proprio paese e le proprie autorità; essi rivendicano soltanto di avere quella libertà di pregare e di organizzarsi secondo quelle che sono le prassi della loro chiesa, in particolare della Chiesa cattolica.
Eminenza, che messaggio può inviare ai tanti missionari che sono lettori di Zenit?
Sì, questa è una bella occasione per dire anche a tutti i missionari: sappiate quanto noi, apprezziamo e amiamo la vostra missione. Noi siamo qui per sostenerla, per aiutarla. A volte riusciamo meglio, a volte meno; questo fa parte di una naturale evoluzione delle cose. Ma voi siete la parte più importante, più bella della nostra attività ecclesiale. Siete la parte migliore della nostra Congregazione!