di Luca Marcolivio
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 22 febbraio 2012 (ZENIT.org) – Nel primo giorno della Quaresima, papa Benedetto XVI, in occasione dell’Udienza Generale, ha proposto la propria catechesi sul tempo liturgico attuale, “un itinerario di quaranta giorni che ci condurrà al Triduo pasquale, memoria della passione, morte e risurrezione del Signore, il cuore del mistero della nostra salvezza”.
Il Santo Padre ha ricordato che, nei primi secoli di vita della Chiesa, era proprio durante la Quaresima che “coloro che avevano udito e accolto l’annuncio di Cristo iniziavano, passo dopo passo, il loro cammino di fede e di conversione per giungere a ricevere il sacramento del Battesimo”.
Questo cammino penitenziale, tuttavia, non interessava soltanto i catecumeni ma tutti i fedeli. Ognuno era tenuto al “rinnovamento spirituale” e a “conformare sempre più la propria esistenza a quella di Cristo”.
Per i già battezzati, in particolare coloro che “si erano allontanati da Dio e dalla comunità della fede”, i quaranta giorni quaresimali rappresentavano un’occasione di “riconciliazione”. Il tempo che precede la Pasqua era ed è “un tempo di metanoia”, ovvero di “cambiamento interiore”, “pentimento” e “conversione”.
“Quaresima”, ha poi spiegato il Papa, è la contrazione dell’espressione latina “Quadragesima”, ovvero un tempo di quaranta giorni che ha numerose corrispondenza nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Quasi sempre questo numero simboleggia l’“attesa”, la “purificazione”, una “lunga prova” e il “tempo delle decisioni mature”.
Quaranta sono, ad esempio, i giorni di Noè nell’Arca (Gen 7,4.12; 8,6), durante il diluvio universale, così come quaranta sono i giorni e le notti che Mosè trascorre sul Sinai (Es 24,18) nell’attesa di ricevere le tavole della Legge dal Signore. Quaranta giorni attendono anche i cittadini di Ninive per ottenere il perdono di Dio (Gn 3,4).
Quaranta sono gli anni di viaggio del popolo ebraico dall’Egitto alla Terra promessa: un “tempo adatto per sperimentare la fedeltà di Dio”, ha commentato Benedetto XVI.
Altri eventi della narrazione veterotestamentaria sono ugualmente di durata quarantennale: il periodo di pace di Israele sotto i giudici (Gdc 3,11.30); la durata del viaggio di Elia prima di incontrare Dio sull’Oreb (1Re 11,41); la durata dei regni di Saul (At 13,21), di Davide (2Sam 5,4-5) e di Salomone (1Re 11,41). Riferimenti al quarantennio vi sono anche nei Salmi (Sal 7-10).
Venendo al Nuovo Testamento, i quaranta giorni sono quelli di Gesù nel deserto (Mt 4,2). Per l’intero periodo Cristo rimane senza mangiare, né bere: “si nutre della Parola di Dio, che usa come arma per vincere il diavolo”, ha osservato il Papa.
Ancora quaranta sono i giorni che intercorrono dalla Resurrezione di Gesù alla sua Ascensione al Cielo, durante i quali il Risorto “istruisce i suoi”.
“I quarant’anni della peregrinazione di Israele nel deserto presentano atteggiamenti e situazioni ambivalenti – ha proseguito il Pontefice -. Da una parte essi sono la stagione del primo amore con Dio e tra Dio e il suo popolo, quando Egli parlava al suo cuore, indicandogli continuamente la strada da percorrere”.
Dio, dopo aver “preso dimora in mezzo a Israele”, precede il suo popolo “dentro una nube o una colonna di fuoco” e provvede quotidianamente al suo nutrimento, “facendo scendere la manna e facendo sgorgare l’acqua dalla roccia”.
Il tempo della peregrinazione nel deserto, tuttavia, “è anche il tempo delle tentazioni e dei pericoli più grandi, quando Israele mormora contro il suo Dio e vorrebbe tornare al paganesimo e si costruisce i propri idoli, poiché avverte l’esigenza di venerare un Dio più vicino e tangibile”. Quindi è un tempo di “ribellione contro il Dio grande e invisibile”.
Per Gesù invece, i quaranta giorni nel deserto rappresentano un momento penitenziale, così come lo era stato il suo Battesimo nel Giordano. Durante quel periodo di digiuno, Cristo, oltre a ripetere la “dinamica” della storia di Israele, si pone in contatto con il Padre, “in intima solitudine con Lui, in esclusiva comunione con Lui, e poi ritornare in mezzo alla gente”.
È sempre nel deserto che Gesù compie il proprio definitivo rifiuto del Maligno. Al “messianesimo di potere, di successo”, preferirà “messianesimo di amore, di dono di sé”.
L’esperienza del deserto e delle tentazioni ad esso connesse segna l’intero cammino della Chiesa lungo i sentieri del mondo e della storia. Da un lato c’è il rischio di capitolare ai pericoli della “realtà che ci circonda”: “l’aridità, la povertà di parole di vita e di valori, il secolarismo e la cultura materialista, che rinchiudono la persona nell’orizzonte mondano dell’esistere sottraendolo ad ogni riferimento alla trascendenza”.
Dall’altro lato c’è la possibilità di optare per la salvezza “mediante il Sacrificio d’amore sulla Croce”, poiché, nonostante il cielo sopra di noi sia “coperto dalla nubi dell’egoismo, dell’incomprensione e dell’inganno”, anche per la Chiesa di oggi “il tempo del deserto può trasformarsi in tempo di grazia, poiché abbiamo la certezza che anche dalla roccia più dura Dio può far scaturire l’acqua viva che disseta e ristora”.
Il Santo Padre ha quindi concluso la catechesi rinnovando la certezza che la sequela di Gesù sulla via della Croce significherà la fine delle “tenebre” e “l’alba nuova creata da Dio stesso”.