"Nella Chiesa viviamo la dinamica evangelica della disponibilità"

Il cardinale designato Antonio Maria Vegliò racconta la sua vocazione e la sua esperienza pastorale

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di Luca Marcolivio

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 17 febbraio 2012 (ZENIT.org) – La vocazione nata in una famiglia di provincia, semplice e ricca di devozione. Una lunga esperienza in Curia, culminata con la nomina a presidente del Pontificio Consiglio per i Migranti. L’esperienza pastorale del cardinale designato Antonio Maria Vegliò è molto densa e significativa.

Alla vigilia del Concistoro, nel corso del quale riceverà la berretta rossa dalle mani di papa Benedetto XVI, Vegliò ha rilasciato un’intervista a Zenit, in cui sono emersi numerosi spunti interessanti in merito alla natura della Chiesa e della Nuova Evangelizzazione.

Eminenza, Lei ricopre una carica molto importante all’interno della Curia Vaticana. Ricevere la berretta cardinalizia, quanto cambia l’esercizio del suo episcopato e della sua missione?

Vegliò: Quando il 6 gennaio il Santo Padre ha annunciato il prossimo Concistoro, ha affermato con chiarezza che “i Cardinali hanno il compito di aiutare il Successore di Pietro nello svolgimento del suo Ministero di confermare i fratelli nella fede e di essere principio e fondamento dell’unità e della comunione della Chiesa”.

E questo comporta una dedizione ancora maggiore che aggiunge una connotazione diversa a quanto stavo realizzando fino ad ora.

Leggo, poi, in questo gesto del Papa un segno di riconoscimento per la missione di questo Pontificio Consiglio, e vedo la Sua sollecitudine verso gli uomini e le donne coinvolti nella mobilità umana, che influisce notevolmente sulla vita del mondo moderno e sulla vita della Chiesa. Di conseguenza, in questo ambito pastorale nel quale il Santo Padre mi ha chiesto di essere suo collaboratore, debbo essere ogni giorno più fedele e generoso.

Vive questa nomina più come un onore o come un onere?

Vegliò: Nella Chiesa viviamo la dinamica evangelica della disponibilità. L’omelia del Papa nel Concistoro del 2010 era molto chiara. Per Dio, il criterio di grandezza sta nel servizio. Chi vuole essere cristiano deve vivere come Cristo, deve fare suo lo stile di vita di Cristo, che “non è venuto per farsi servire, ma per servire”. E se ciò è valido per tutti i cristiani, lo è ancor più per chi ha il compito di guidare il popolo di Dio. Affermava quindi il Papa che “non è la logica del dominio, del potere secondo i criteri umani, ma la logica del chinarsi per lavare i piedi, la logica del servizio, la logica della Croce che è alla base di ogni esercizio dell’autorità”. Solo così potremo rivelare il vero volto di Dio.

Ci vuole raccontare come nacque la Sua vocazione sacerdotale?

Vegliò: La mia vocazione è nata in un ambiente molto sereno, in famiglia e nella parrocchia. Da piccolo ero molto affezionato a don Achille Sanchioni, un sacerdote di Fano, amico di famiglia, un sant’uomo. Frequentavo anche assiduamente la parrocchia di San Francesco d’Assisi a Pesaro, tenuta dai Padri Cappuccini ed ero tra i chierichetti più presenti, al quale tutti volevano bene.

Un bel giorno decisi di entrare nel Seminario diocesano di Pesaro. Non furono facili i primi tempi lontano dalla famiglia a cui ero molto legato, tanto che ad un certo momento – era il mese di aprile – sarei anche voluto tornare a casa. Ma la mamma, che soffriva anch’essa per la mia mancanza, mi chiese di attendere pochi mesi per terminare l’anno scolastico con gli esami. Superati questi, mia madre disse che potevo tornare a casa. Le risposi, lo ricordo ancora: “no, mamma, voglio farmi prete!”. Non saprei dire cosa fosse successo in quel breve periodo di tempo, ma certamente sono sempre stato contento della mia scelta. Ricordo con piacere gli anni in cui ero cappellano dei giovani, intento a coniugare l’amicizia e lo scherzo con il dovere, sempre pronto ad ascoltare per capire e, se possibile, per aiutare. Ed è proprio ciò che chiede Papa Benedetto XVI quando dice: l’autorità per il cristiano è servizio e amore.

La giovane vocazione, nata in un ambiente profondamente cattolico, si è andata forgiando negli anni, fedele all’impegno preso della consacrazione al Signore, e così bene espresso nel versetto 4 del Salmo 26: “Una cosa ho chiesto al Signore, questo sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Questo bellissimo concetto l’ho fatto stampare sul santino della mia ordinazione sacerdotale, il 18 marzo 1962, e anche in quello della mia consacrazione episcopale, il 6 ottobre 1985, ed ora a ricordo della mia elezione alla dignità cardinalizia, il 18 febbraio 2012.

Nella chiesa di oggi un principio ritenuto da taluni un po’ obsoleto è l’obbedienza al Santo Padre. Come andrebbe vissuta nel XXI secolo questa condizione imprescindibile per un successore degli apostoli?

Vegliò: Se prima abbiamo fatto riferimento al senso dell’autorità nella Chiesa, sulla stessa linea dobbiamo intendere anche l’obbedienza. Credo sia importante sottolineare che l’obbedienza non è un obiettivo in sé, bensì un mezzo.

Noi dobbiamo, innanzitutto, essere obbedienti alla volontà di Dio Padre, e per questo ogni giorno dobbiamo chiederci, a livello personale e comunitario, come fare affinché si realizzi ciò che chiediamo nella preghiera domenicale: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”.
L’autorità del Santo Padre è al servizio proprio di questa ricerca della volontà di Dio, in modo che questa avvenga nell’unità e nella verità.

Sono certamente illuminanti le parole che Papa Benedetto XVI pronunciò nell’omelia dell’inizio del suo ministero, quando affermò: «Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia».

È fondamentale per la Chiesa riconoscere e valorizzare il ministero petrino, principio e fondamento perpetuo e visibile di unità, che fu spiegato in modo felice dal Santo Padre in una delle sue catechesi, quando affermò: “Pietro, per tutti i tempi, dev’essere il custode della comunione con Cristo; deve guidare alla comunione con Cristo; deve preoccuparsi che la rete non si rompa e possa così perdurare la comunione universale. Solo insieme possiamo essere con Cristo, che è il Signore di tutti” (Udienza generale, 7 giugno 2006).

Lei ha definito i migranti “portatori di speranza”: in che misura possono esserlo?

Vegliò: Dipende da ciascuno di loro e dalle possibilità che vengono offerte loro. Come il Concilio Vaticano II affermava, “tutti i popoli costituiscono una sola comunità”, e cioè “una sola famiglia umana”, secondo le parole di Benedetto XVI. Le migrazioni, che caratterizzano il nostro mondo globalizzato, possono farci sperare nella realizzazione di questa famiglia mondiale “di fratelli e sorelle, in società che si fanno sempre più multietniche e interculturali”. Questo però presuppone dei passi da fare e un cammino da intraprendere di apertura verso l’altro. È necessario, per esempio, un impegno per l’integrazione del nuovo arrivato, sia da parte del migrante che della società che lo accoglie. Questo richiede da ambedue mutuo rispetto per i valori, i costumi e le tradizioni di ciascuno; presuppone, poi, accoglienza fraterna e solidarietà da parte della popolazione locale, e da parte del migrante il rispetto delle leggi e abitudini del Paese di arrivo, con uno sforzo ad apprendere la lingua locale, eccetera.  Fino ad amarsi come in una famiglia.

I migranti cattolici, ai quali mi riferivo, possono essere “portatori di speranza”, nei luoghi in cui la fede sembra non abbia più senso nella vita delle persone ed ha perso il suo valore per la società. In queste situazioni, infat
ti, viene a mancare quella gioia di vivere e quell’ottimismo nella vita che nascono dalla certezza che il destino della persona umana non è di finire su questa terra, in una valle di lacrime, ma di oltrepassare il confine della morte per una vita che non ha fine. Ecco che il migrante cattolico, se adeguatamente formato e accompagnato, può essere luce nel buio della mancanza di senso, attraverso la testimonianza di una vita di felicità nonostante le difficoltà.

La presenza di  molti stranieri non cristiani, spesso difficilmente integrabili con la nostra cultura, pone una sfida all’evangelizzazione. Come può un cattolico affrontare questa sfida?

Vegliò: Per i non cristiani, non si tratta di nuova evangelizzazione, ma semmai di un primo annuncio del messaggio cristiano, di una prima evangelizzazione. Occorre però da parte nostra la disponibilità all’ascolto. Bisogna iniziare con il dialogo, cercando di trovare ciò che ci unisce, individuando le cose che abbiamo già in comune, anziché sottolineare ciò che ci divide. La regola d’oro è presente praticamente in tutte le religioni e penso possa essere condivisa anche da chi non ha un credo religioso: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” o, la versione positiva, “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12) scritta nel Vangelo. Il nostro libro sacro contiene la Parola di Dio, ma nelle altre religioni, ci sono quelli che chiamiamo “i semi del Verbo”. Sono questi che dobbiamo cercare per trovare un punto d’incontro, per poterci capire e vivere insieme in armonia e pace. Se ascoltiamo i nostri fratelli non cristiani con il cuore e proviamo a vedere con i loro occhi, riusciamo a capirli più profondamente. Di conseguenza loro saranno disposti a udire ciò che abbiamo nell’animo e cioè il messaggio evangelico, offerto come un dono.

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ZENIT Staff

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