Nel precedente articolo abbiamo affrontato l’analisi di un movimento artistico, quale l’Arte povera, che è espressione della visione post-moderna del concetto di arte. Rimanendo nel medesimo ambito, ritengo che sia interessante affrontare il più ampio quadro delle questioni teoretiche dell’arte in relazione alla “condizione post-moderna”, analizzare, cioè, ciò che è denotabile come “proprio” della “fine dell’arte”1.
Dalle analisi che stiamo proponendo nel corso degli anni, strettamente legate alle questioni artistiche, mi sembra si deduca che difficilmente si possa parlare con entusiasmo di un superamento del moderno in chiave ottimistica. Infatti, se da una parte la post-modernità ha ben evidenziato i sintomi della crisi moderna, ha però nel contempo rinunciato a produrre i rimedi2.
Romano Guardini, nella prima metà del secolo scorso, affermava che nella modernità vi sono elementi buoni e nuovi. Ma il buono non è nuovo, perché deriva dalle sue radici cristiane, e il nuovo non è buono, perché deriva dal rifiuto del cristianesimo. Preconizzava che la “fine della modernità” sarebbe stata una “brutta fine”, prevedibile fin dall’inizio, dalla sua nascita, perché, nel distaccarsi dalle sue radici cristiane la cultura moderna non poteva che degenerare nello smarrimento del senso3.
Lo smarrimento del senso, sia come rifiuto volontario delle radici cristiane, che sta all’origine della modernità, sia come esito finale di perdita del senso delle “narrazioni”, è di fatto l’anima della condizione post-moderna, che si manifesta più visibilmente nella “demitizzazione e demistificazione” della modernità stessa. Quindi per certi versi tutti i movimenti artistici che muovono dalla disillusione e dalla perdita del “senso”, come la Pop Art o l’Arte Povera e le varie espressioni combinate come la Minimal art o la Land Art, fin dai lontani anni Sessanta del secolo scorso, hanno come minimo comune multiplo una visione discontinua della storia e la volontà di “decostruire”, esito della delegittimazione, appunto, di ogni meta-linguaggio.
Guardando, da un punto di vista propriamente artistico (linguistico?), la delegittimazione di ogni narrazione da parte della postmodernità, possiamo notare che non esistono più i generi narrativi, o, se vogliamo intrattenere una metafora con la poesia, i generi letterari. Il cavalleresco, l’epico, il tragico, il comico, il mistico, l’elegiaco … sono di fatto considerati sorpassati, annullati perché fondati appunto da un sistema ritenuto illegittimo, quale può essere il sapere filosofico o la fede, intrinsecamente legati alla narrazione. Tutto l’ampio spazio della rappresentazione espressiva si è ridotto a pochissimi generi, a pochissime forme considerate ancora legittime e quindi non delegittimate.
La delegittimazione decostruttiva, che ha come scopo l’annullamento di ogni possibile conflitto tra posizioni antinominiche, di fatto annulla tutti i generi poetici, perché non c’è nulla all’interno di tale visione del mondo che possa più essere affermato. Da questa demolizione linguistica rimane fuori ciò che è in grado di operare una critica o di perpetrare una ulteriore delegittimazione, lo strumento in grado di delegittimare: la satira.
La satira è divenuta il genere in grado di rappresentare la condizione postmoderna; essa è capace di declinarsi in varie forme dalla farsa all’invettiva. Gradualmente ha preso potere ed è divenuta ironicamente il genere “letterario” più diffuso. Già con George Grosz e Otto Dix, la satira era divenuta all’inizio del secolo scorso un vero e proprio linguaggio artistico, per denunciare e irridere ai poteri “forti”. Ma questo non è un semplice innovamento in campo artistico, è di fatto la manifestazione visibile dell’ultimo atto della delegittimazione di ogni narrazione avvenuta durante il Decadentismo. Da quel momento in poi, l’arte pian piano rinuncia ad affermare alcunché ed intraprende la strada della protesta e della denuncia sociale, politica, religiosa. Già nell’Ottocento, si propongono singole opere d’arte con la tematica della denuncia sociale, ma poi la questione si è fatta diversa: ad essere delegittimato è anche tutto il sistema d’arte e la visione del mondo che lo accompagna. Jean Cocteau, lo stesso Picasso, o i surrealisti, intraprendono questo genere mescolandolo al sogno, al paradosso e all’iperbole facendolo divenire il genere eletto.
Ogni affermazione proposta all’interno della opzione ideologica postmoderna è di fatto un attacco a qualcosa che viene visto come residuo, ancora da abbattere, della storia. Le iniziative artistiche, o meglio il marketing delle operazioni commerciali costruite attorno alle manifestazioni artistiche, si nutre di questo tipo di linguaggio. Ogni simbolo superstite alla delegittimazione o alla decostruzione viene visto come espressione di un potere e quindi deve essere abbattuto o per lo meno attaccato. Un esempio famosissimo molto esplicativo è l’opera di Maurizio Cattelan, che rappresenta Giovanni Paolo II colpito da un meteorite, esibita alla Royal Academy of Arts di Londra e alla Biennale di Venezia.
Ma non dobbiamo pensare che questo modo di “dissacrare” o di “delegittimare” sia riservato solo a questo ambito espressivo, anzi, se osserviamo meglio la realtà quotidiana, ci accorgiamo che tale sistema è penetrato ovunque, o forse il genere della farsa è di fatto il genere che il sistema pubblicitario ha acquisito per affermare il consumo. Ovviamente nulla si può dire come vero e quindi c’è bisogno di un genere capace di affermare delegittimando. Per esempio per vendere un noto caffè si prende come testimonial san Pietro e si ironizza in maniera farsesca sul Paradiso, su questa stessa linea una nota emittente televisiva satellitare a pagamento, ha proposto una campagna di abbonamento utilizzando immagini iconografiche bibliche ed evangeliche interpretate da noti sportivi che letteralmente compiono “miracoli”. Decine di volte nel corso degli anni abbiamo assistito a pubblicità che hanno visto protagonisti suore, frati e sacerdoti rappresentati come furbi o egoisti per vendere cere per pavimenti, acque minerali o abbonamenti telefonici.
I simboli non sono graditi dalla condizione post-moderna, perché espressione di una cultura che ha come centro affermazioni veritative ad essa intollerabili; i generi poetici e narrativi sono di fatto messi al bando perché a questi legati inscindibilmente, ma nel caso delle opzioni artistiche vengo ripresi per essere negati e nel più complesso caso del sistema pubblicitario vengono sottoposti a satira o a ironia per affermare la validità del prodotto pubblicizzato. Tutto si limita a giochi linguistici, a metafore vuote, utili solo per una fugace risata e per fissare nella mente il nome del prodotto da acquistare.
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NOTE
1 Cfr. A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia [1997], trad.it., Bruno Mondadori, Milano 2008.
2 «Con ciò il postmoderno definisce con lucidità una diagnosi, ma è incapace di ogni terapia» G. Morra, Il quarto uomo. Postmodernità o crisi della modernità?, Armando editore, Roma 1992, p. 21.
3 Cfr. A. Olmi A., La fine della modernità nel pensiero di R. Guardini e G. Vattimo, in “Sacra Doctrina” 46 (2001/6), pp. 7-28.