La prima parte dell’intervista a monsignor Bruno Forte è stata pubblicata ieri, giovedì 17 gennaio.
Strumenti come l’ordinariato, scelto dal Santo Padre per il reintegro dei fedeli anglicani, potranno essere utili anche per altre comunità acattoliche?
Mons. Forte: Alla base di questo c’è un’intuizione di Giovanni Paolo II che, nella Ut unum sint, si era dichiarato disposto a rivedere l’esercizio del primato, perché potesse essere accolto da battezzati di altre tradizioni cristiane. L’idea è che bisogna distinguere tra un contenuto di verità teologica di unità della Chiesa, affidato al vescovo di Roma, e le modalità del suo esercizio, che possono essere naturalmente diversificate come l’esperienza storica dimostra.
Ci può essere uno spirito di unità che ha fatto maturare la Chiesa latina e ci può essere uno spirito di unità come quello che lega le Chiese orientali cattoliche e la Santa Sede. Inoltre ci potranno essere altre modalità come queste ultime forme sperimentali dell’ordinariato per gli anglicani. Esso sta avendo qualche segnale di accoglienza anche se non nei numeri che forse astrattamente si potevano pensare; attenzione, però, questo non vuol dire che l’intuizione non sia felice: significa, invece, che molti anglicani, che sono di fatto entrati nella Chiesa cattolica, tra cui tantissimi sacerdoti, vogliono vivere questa piena comunione con Roma, sentendosi a tutti gli effetti cattolici. Dunque la formula dell’ordinariato potrà valere per quegli anglicani che sono particolarmente legati allo specifico della tradizione anglicana nella liturgia, nella forma della preghiera, senza per questo compromettere la piena comunione dottrinale e pastorale con la Chiesa di Roma. Dobbiamo quindi essere aperti ad una pluralità di possibilità, cioè ad una comunione che si realizzi, come per gli anglicani, in una semplice e piena comunione con la Chiesa cattolica, senza rinnegare il bene ricevuto nella comunione anglicana ma portando questo bene a pieno compimento nella Chiesa cattolica. Potranno esserci anglicani che vorranno trovare una comunione con Roma che passi attraverso un visibile mantenimento di alcuni elementi caratteristici della loro identità e tradizione. Benedetto XVI, con le sue scelte, ha dimostrato di essere aperto a tutte le possibilità, sostenendole e incoraggiandole perché si realizzi la preghiera di Gesù per l’unità di tutti i cristiani.
Come si spiegano i “successi ecumenici” di Benedetto XVI?
Mons. Forte: Il Papa, rispondendo a questa domanda, direbbe che se ci sono dei successi, questi sono unicamente opera dello Spirito Santo e che ciò che si è raggiunto è probabilmente ancora troppo poco rispetto a ciò che il Signore si aspetta dalla sua Chiesa. Questa è una delle sue caratteristiche di uomo di fede che vede le cose nell’orizzonte ultimo e non esalta mai troppo i traguardi raggiunti nel penultimo. In altre parole c’è ancora tanto da fare. L’ecumenismo è ancora una grande promessa e una grande chiamata, per certi aspetti anche una grande sfida. La tentazione peggiore sarebbe quella dello scoraggiamento, di pensare che questa unità non possa mai essere raggiunta. Su questo il Papa chiama a reagire con una grande fiducia nell’opera di Dio e nella sua volontà. La tentazione opposta potrebbe essere quella di affrettare a tutti i costi l’unità con passi che potrebbero essere giustificati più dall’irenismo che non dall’obbedienza alla verità. Su questo il magistero di Benedetto XVI ci mette in guardia: non si potrà costruire l’unità se non nella verità. D’altra parte, la verità cristiana è inseparabile dalla verità, quindi unità-verità-carità sono i tre poli di un unico cammino che vanno tenuti insieme.
Che valore ha, invece, il tentativo di riconciliazione con la Fraternità San Pio X?
Mons. Forte: Anche su questo papa Benedetto ha dimostrato grande carità e grande apertura. La Sommorum Pontificum e le sue norme applicative rendono possibile a chi, in maniera aperta alla pienezza cattolica, voglia vivere quello che è stato il patrimonio liturgico del passato. Personalmente sono convinto che la liturgia del Vaticano II sia davvero ricca e “tradizionale”, quindi non comprendo come mai queste nostalgie possano nascere; tuttavia ci sono e il Papa ha dimostrato grande rispetto ed accoglienza. C’è però un punto irrinunciabile con cui la comunità fondata da mons. Lefevre dovrà misurarsi: l’accettazione piena e convinta del Concilio Vaticano II nei suoi contenuti dottrinali. Il rifiuto del Concilio non è il rifiuto di un singolo momento della vita della Chiesa: la sua accettazione è parte integrante dell’accettazione della Chiesa Cattolica nel suo complesso.
Come va vissuto il dialogo ecumenico a livello diocesano e parrocchiale?
Mons. Forte: L’ecumenismo è certamente entrato nella Chiesa Cattolica come una dimensione irrinunciabile. Naturalmente ogni comunità lo vive in modo differente: ci sono chiese che devono confrontarsi quotidianamente con ortodossi o evangelici sul loro territorio ed altre che vivono di meno questa realtà. Ci sono comunque dei principi base che vanno seguiti da tutti. La Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, ad esempio, andrebbe sempre più valorizzata, a mio avviso. Anche nella pastorale giovanile e per gli adulti e nelle catechesi va attribuita sempre più importanza alla preghiera per l’unità.
Nella mia diocesi di Chieti-Vasto, essendoci numerosi ortodossi, ho aderito ad una richiesta del metropolita Dervos, a seguito della quale ho affidato una chiesa a un parroco ortodosso. In una comunità avventista, il pastore è venuto ad accogliermi con un’attenzione e un amore commoventi, invitandomi poi a parlare alla loro facoltà teologica a Firenze, sulla Parola di Dio. A livello di vissuto, le esperienze ecumeniche sono molto serene: lo stesso vale per le comunità valdesi che da secoli sono in mezzo a noi.
C’è solo qualche comunità fondamentalista come i testimoni di Geova, con i quali non è possibile alcun dialogo perché non lo vogliono e lo fuggono, specie se hanno davanti persone con una buona formazione cristiana. In quel caso è la maturazione della vita cristiana che deve essere più eloquente di ogni parola. Vedo, ad esempio, che in alcune parrocchie si assiste al ritorno di molti ex testimoni di Geova o alla loro conversione tout court. Quando, in occasione di un corso prematrimoniale, ho chiesto a degli ex testimoni di Geova come mai fossero tornati, la riposta è stata: “perché nella Chiesa sentiamo liberi”. Il Dio cristiano non è un Dio che ci spaventa o che ci impone la sua volontà ma è un Dio che ci chiama con vincoli d’amore e questo ci dà molta gioia.
Qual è il significato profondo del tema della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani di quest’anno?
Mons. Forte: Quest’anno il tema della preghiera per l’unità dei cristiani è basato su una frase dal libro del profeta Michea: Quel che Dio esige da noi (Mi 6,6-8). Il fondamento di questa riflessione, scelta da una commissione mista di cattolici, ortodossi e protestanti è la volontà di realizzare quello che il Signore vuole per noi. Tre sono le indicazioni fondamentali: la prima è l’indicazione della pietà, il Signore chiede misericordia ai suoi. La pietà è quell’atteggiamento profondo di abbandono in Dio ed affidamento al suo assoluto primato. Michea chiede di riconoscere questo primato del Signore come sorgente e riferimento di tutte le nostre scelte. Questo punto è l’idea fondamentale su cui insiste tanto il Pontefice. In Michea l’affidamento alla misericordia è il segno della ricerca continua di misurarsi sulla volontà di Dio.
In secondo luogo c’è la giustizia. Come mostrano i commenti ecumenici, la giustizia viene intesa anche nella sua dimensi
one fortemente sociale. Vengono riconosciuti i diritti dei poveri e dei deboli. Spesso una cooperazione a servizio dei poveri e finalizzata ad una giustizia più forte è possibile, dove non si possa portare avanti una comunione dottrinale, perché mancano gli strumenti.
Infine l’umiltà: non siamo noi i protagonisti dell’unità ma essa viene da Dio e ciò che viene chiesto a noi è soprattutto invocare l’opera di Dio. Credo che senza umiltà non sarà mai possibile realizzare l’unità che il Signore ci chiede. Ecco perché il testo di Michea diventa un’importante programma ecumenico, soprattutto in un’epoca in cui alcuni parlano di “inverno ecumenico”, quando invece bisognerebbe guardare con occhi di fede, perché, alla vigilia della primavera, il seme sta morendo per dare il suo frutto.