Pubblichiamo oggi la terza ed ultima parte della relazione tenuta dalla professoressa Maria Agostina Cabiddu, dell’Università Cattolica di Milano, all’ultimo Convegno annuale della Fondazione Centesimus annus – Pro Pontifice, che si è svolto dal 19 al 20 ottobre scorsi a Cuneo ed era dedicato al tema “La giustizia è la prima via della carità” (Caritas in Veritate n. 6). 

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3. Dunque, salvo arrendersi all’impotenza o partecipare all’ingiustizia, nessuno può chiamarsi fuori. In particolare, non possono abdicare al compito di ricercare e di praticare la giustizia gli uomini di legge, specialmente di uno stato, qual è il nostro, costituzionale, chiamati ad operare in un sistema non più imperniato sulla “ragione” della forza, secondo il vecchio motto hobbesiano per cui “auctoritas non veritas facit legem”, quanto piuttosto sull’Idea (sul valore fondante) secondo cui “veritas non auctoritas facit jus”. È lo stesso Zagrebelsky ad avvertire che proprio qui, nella necessità del tessere e ritessere i fili delle ragioni e delle argomentazioni, sta “la differenza fra l’impostazione unilaterale del positivismo giuridico legalista e la visione del diritto come realtà a due lati, formale e materiale: per il positivismo, il compito di adeguamento della legge alla giustizia è un compito del solo legislatore, che esclude giudici e giuristi. Non così, invece, una volta che la dimensione della giustizia penetri nella definizione del diritto ed esiga che, con questa, la legge positiva “faccia i conti” debitamente”4.

Tale penetrazione avviene nel moderno stato costituzionale traendo dal campo del pregiuridico i valori, che corrispondono alle diverse aspirazioni di giustizia di ciascuna delle componenti che prendono parte al patto costituente, per inserirli quali principi nella struttura della Costituzione, che si presenta allora come espressione di un equilibrio oggettivo, una sorta di positivizzazione del diritto naturale. Eguaglianza, libertà, solidarietà, dignità, giustizia sono valori che, una volta espressi, o se si preferisce tradotti, giuridicamente, divengono principi, alla cui attuazione è chiamato certamente il legislatore ma anche, e in special modo, l’interprete.

Dipende dal legislatore, infatti, attuare le politiche redistributive che consentano all’indigente di curarsi, al capace e meritevole, anche se privo di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi, a tutti di sviluppare pienamente la propria personalità e di partecipare effettivamente all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese ed è compito dell’interprete dare della legge una lettura costituzionalmente orientata, fermo che “si può dare una legge ingiusta (o, per quanto detto prima, incostituzionale: ndr), ma non una giustizia illegale”5.

Con il che non si vuole affatto dire che il diritto, neanche quello del moderno stato costituzionale, basti a se stesso. Al contrario, lo scandalo quotidiano dell’ingiustizia – nel campo sociale, nel campo penale, nell’ambito dei rapporti fra stati, nazioni e generazioni – testimonia della necessità di un surplus di impegno, in particolare per i credenti.

Per essi, in particolare, vale la parola del Santo Padre: “La giustizia è la prima via della carità”, a significare, da un lato, l’obbligo di essere giusti e di contribuire a lasciare un mondo più giusto e, dall’altro, che non vi può essere carità senza giustizia. Ciò corrisponde, d’altra parte, all’insegnamento evangelico: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento” (Matteo, V, 17).

“Se la vostra giustizia non sarà più abbondante di quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo, V, 20) e continua “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (Matteo, V, 43-44).

Un comandamento, quello dell’amore, che supera dunque il diritto o, se si vuole, la giustizia degli uomini e costituisce, per il credente, una sfida e una promessa. L’immensa portata della sfida si comprende immediatamente se solo si considera che il termine “carità” indica una delle tre virtù teologali, anzi, delle tre, quella suprema, in quanto «Dio stesso è carità» (1 Gv 4,16) o, come dice san Paolo, «esistono tre cose: la fede, la speranza, la carità, ma la più grande di esse è la carità» (cf 1 Cor 13, 8-10; 12-13). Il punto centrale da cogliere è che la carità, nella visione cristiana, è espressione divina in noi: più precisamente, essa indica l'autorivelazione di Dio, la qualità di sé che Dio (che è amore) rivela all'uomo.

Nessuno può obbligarci ad amare e, non fosse che per questo, la carità si pone al di là del diritto, azione libera e gratuita, “sine spe ac metu”. Spetta all’uomo cogliere la sfida di diventare, come dice Carnelutti, collaboratore di Dio, chiamato cioè a entrare nella logica sovraumana e perciò paradossale del suo amore, per partecipare all’opera sua e realizzare la promessa: cambiare il cuore dell’uomo e vincere il male.

(La seconda parte è stata pubblicata venerdì 11 gennaio)

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NOTE

4 G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, il Mulino, Bologna, 2008, 34.

5 F. CARNELUTTI, Giustizia e carità, in ID., Discorsi intorno al diritto, 210.