Diritto al figlio o diritto del bambino ad avere una famiglia?

Il figlio come “possesso” è una rivendicazione che va affermandosi oggi: i dubbi sulla sua liceità etica

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Il desiderio di un figlio da parte di una famiglia è del tutto naturale ed umanamente comprensibile. La famiglia è fondamentalmente orientata alla generazione, anzi, si può dire che l’aspirazione alla genitura è insita nella persona, è “scritta nel DNA” di ognuno. Attualmente però si assiste sempre più spesso alla rivendicazione del diritto ad avere un bambino, magari  con qualunque mezzo, più o meno eticamente lecito.

“Così, talvolta, concentrata sulla presunta onnipotenza degli aspiranti genitori, – come ha affermato  Gianmario Fogliazza dell’Ai.Bi. (Associazione Amici dei Bambini) – la procreazione biologica si trova a ridurre  il figlio nel cosiddetto prodotto del concepimento; non importa quando e come conseguito o raggiunto, interessa ottenere quanto desiderato, comunque ed in ogni caso. La procreazione  viene così ad essere vissuta anche secondo logiche di riproduzione, dove il figlio ridotto a prodotto, è con sincero sentimento desiderato, ma con assoluta determinazione preteso: presunzione assicurata dalle biotecnologie e tutelata da un’arrendevole e mediocre prassi giuridica in grado di considerare  la “esigibilità della prestazione”, ma non l’esito della stessa.”[1]

Secondo il filosofo Adriano Pessina “la tecnologia ci sta abituando all’idea che non esistano limiti ai nostri desideri e progetti ma soltanto ostacoli (qualcosa che si può superare). Ma nella vita morale esistono invece anche ostacoli (qualcosa che si può tecnicamente superare) che debbono essere assunti come ‘limiti’, cioè come confini che non debbono essere superati perché sarebbe male il farlo.”[2] Accade però purtroppo in vari casi che “il desiderio è trasformato in diritto, il figlio è preteso prima che accolto, la genitorialità vissuta secondo logiche di possesso, non secondo prassi di incondizionata dedizione.”[3]

Esiste veramente il diritto ad avere un bambino? Le conseguenze di questa rivendicazione si ripercuotono sulla relazione genitore-figlio e sono senz’altro negative. Quando si parla di diritto infatti si mette al di sopra di tutto l’adulto e la sua esigenza di soddisfare un bisogno di autorealizzazione individuale, la sua voglia di affermazione individualistica ed egoistica a scapito delle reali esigenze  di cui è portatore il bambino, che viene in tal modo strumentalizzato a piacimento dell’adulto. Focalizzandosi sul bisogno dell’adulto, inevitabilmente le esigenze del bambino passano in secondo piano: il rapporto diventa in tal modo del tutto sbilanciato.[4]

Non esiste più il diritto del bambino ad avere una famiglia, a sviluppare la sua vita nelle condizioni migliori: emerge solo il diritto dell’adulto a “possedere” il figlio. Tale atteggiamento è stato definito da Giovanni Paolo II “utilitaristico”, poiché frutto della “civiltà del prodotto e del godimento, una civiltà delle ‘cose’ e non delle ‘persone’, una civiltà in cui le persone si usano come si usano le cose.”[5]

Il figlio è invece innanzitutto “un ‘io’ che emerge dentro una relazione d’amore che sa farsi costitutivamente luogo di accoglienza e di custodia. Maternità e paternità responsabile sono termini che indicano innanzitutto la maturità morale di un atteggiamento  capace di farsi carico di un’altra esistenza  e non semplicemente la tecnica programmatrice  di chi produce secondo i propri tempi ed i propri  progetti l’esistenza altrui”.[6]

La genitorialità viene ad essere esclusa  nel caso in cui l’adulto, il più “forte” del rapporto, decida in modo unilaterale. Quando si pensa e si vuole il figlio come affermazione delle proprie facoltà o come prova della propria riuscita nella vita o nella relazione di coppia, molto spesso si mietono delle delusioni: il  bambino non riuscirà certamente a colmare le ‘lacune’ dei genitori. Egli non può costituire il loro “completamento”. Non possono gravare ipoteche o ‘aspettative’ sul suo arrivo in famiglia, come ad esempio la futura restituzione di affetto o la risoluzione di un matrimonio in crisi.

Il figlio, invece, secondo il pedagogista Ferdinando Montuschi, è la solidificazione, l’intensificazione di una relazione di coppia, che arriva a trasformarsi in dono: “La vita di coppia può essere considerata la scuola attraverso la quale due esseri umani, legati da una relazione totalizzante, impegnativa  e coinvolgente su tutti i piani del rapporto, impara a diventare accogliente verso un terzo. (…) L’accoglienza reciproca di due adulti innamorati è impegnativa ma sempre meno rischiosa rispetto all’accoglienza di un bambino: almeno nelle situazioni ‘normali’ l’adulto si può difendere, può verbalizzare il proprio disagio, può organizzarsi  per sottrarsi a relazioni troppo irrispettose: il bambino no, la sua vita e il suo benessere, il suo sviluppo e il suo futuro dipendono totalmente dalla coppia.”[7]

Il figlio deve essere accolto come un dono, abbracciato nella sua unicità ed originalità, amato per ciò che è, anzi, perché è. Solo così sentirà veramente di appartenere ad una famiglia, di trovarsi in un luogo sicuro, protetto. Solamente in tal modo svilupperà la sua fiducia nei confronti della vita e riconoscerà il padre e la madre come genitori autentici, pieni di significato, sentendosi accettato e valorizzato come membro attivo della famiglia.

Fonte: vitanascente.blogspot.it

[1]     G. FOGLIAZZA, Il figlio preteso, in “Il Foglio” – AIBI n. 58/59 (2000), pp. 6-7

[2]     A. PESSINA, Procreare in famiglia nel contesto della cultura tecnologica: desideri e valori morali,  in “La Famiglia”n. 211 (2002) p. 25

[3]     G. FOGLIAZZA, cit., p. 7

[4]     S. BONINO, Un figlio per forza in “Psicologia contemporanea” n. 254 (1999) p. 12

[5]     GIOVANNI PAOLO II, Gratissimam Sane  – Lettera alle famiglie (2/2/1994) in “Enchiridion della famiglia”, (cur. Pontificio Consiglio per la famiglia, EDB, Bologna 2000, pp. 313-314

[6]     A. PESSINA, cit., p. 24

[7]     M.T. PEDROCCO BIANCARDI, in “La Famiglia” n. 180 (1996), p. 29

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Anna Fusina

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