Qual è il senso, l’orientamento e il compito della vita monastica? Le risposte possono essere varie. Al vedere esteriormente l’attenzione particolare che ogni comunità monastica dedica a un aspetto del vissuto cristiano, si potrebbero azzardare varie risposte: l’apostolato, la scienza, la cultura intellettuale di alto livello, la liturgia, la penitenza, la vita contemplativa. Sono risposte più o meno plausibili. Eppure, Louis Bouyer, nel suo libro Il senso della vita monastica edito dalla Qiqajon, non opta per alcuna di queste ipotesi come senso primario e fondamentale del monachesimo. Egli sostiene giustamente che ciò che costituisce il senso della vita monastica non può essere un qualcosa, è un Qualcuno. Il senso della vita monastica è cercare Dio.

È, d’altronde, ciò che san Benedetto invita a verificare quando arriva qualche postulante in monastero: «Si sia solleciti nell’osservare se il novizio cerca veramente Dio» (Regola 58,6). Lungi dall’essere una risposta astratta, “cercare Dio” costituisce un percorso e un traguardo che implicano una serie di conseguenze e di pratiche che Bouyer sviluppa in due grandi parti: teoria e pratica.

La ricerca di Dio è una confessione della personalità di Dio. Bouyer spiega infatti che “cercare Dio”, significa «cercarlo come si cerca una persona, come la persona per eccellenza, e non solo come il “tu” sul quale riversare tutto il nostro amore, ma come l’“io” che si è rivolto a noi per primo, colui la cui Parola d’amore rivolta al nulla ci ha tratti dal nulla una prima volta, e rivolta al nostro peccato ci trae dal nulla una seconda volta». Dio non può rimanere qualcuno di cui si parla in terza persona, egli è il Presente per eccellenza, e il monaco è quella persona che incontra Dio fino allo scontro: «Il monaco è uno che come Giacobbe dice all’angelo che lo ha visitato nella notte: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!” (Gen 32,27). E lotta con lui nelle tenebre finché la prima luce del giorno non gli permette di discernere i lineamenti del volto divino». Senza questo elemento mistico di incontro personalissimo con Dio, la vita monastica non avrebbe nessun senso. La vita monastica è persistere in questa «visione crepuscolare» di Dio. È questa una delle finalità dell’ascesi che la vita monastica comporta: imparare a resistere all’asprezza del dolce incontro.

Il cammino di questa vita con e, soprattutto, in Dio è declinato secondo la logica trinitaria e liturgica nello Spirito, per mezzo del Figlio, al Padre. Il monaco è uno pneumatikos per eccellezza che si lascia innestare dallo Spirito in Cristo per rivolgersi con l’unico mediatore al Padre.

Il monaco è un monos, un unificato, che spezza il legame con ogni attaccamento che ostacola l’unificazione dell’essere e l’unione con Dio. La morte della mortificazione non è fine a sé, è orientata alla vita nuova con/nell’Amato. La morte è finalizzata a conseguire le primizie della risurrezione. Se il monaco è un “rinunciante”, lo è per una scelta preferenziale, perché sceglie «la parte migliore». È interessante quanto afferma Bouyer riguardo alla rinuncia: il monaco rinuncia ai beni del mondo riconoscendone la positività. Nessun merito avrebbe nel rinunciare a questi beni se fossero mali! Sarebbe semplicemente il dovere morale minimo. La dinamica mistica della rinuncia si manifesta perché il monaco rinuncia alle cose buone, riconoscendone la bontà, ma discernendo in questa bontà, l’immagine e l’evocazione del Sommo Bene.

Ciò che sorprende del libro di Bouyer è la profonda sensibilità monastica di questo infaticabile studioso che non fu mai “monaco” giuridicamente, ma che lascia trasparire nella sua riflessione sulla vita monastica un cuore monastico, un «monachesimo interiorizzato», per dirla con Pavel Evdokimov. D’altronde, Bouyer è convinto che la vocazione dei monaci non è mai stata una vocazione particolare. Essa «non è altro che la vocazione del battezzato ma vissuta nella dimensione della massima urgenza». Anche se il monachesimo è di fatto uno “stato di vita”, esso rimane in qualche modo una “vocazione” per ognuno: una chiamata alla radicalità dell’amore, alla purezza della testimonianza profetica, al paradosso dell’umanesimo escatologico.

A proposito dell’ultimo punto menzionato, mi piace utilizzare le parole di Basilio di Iviron, monaco del Monte Athos, citato da Luigi d’Ayala Valva, monaco di Bose nella sua prefazione al volume: «Accostando un monaco maturo, non vi trovi qualcosa di sovrumano che ti strabilia e ti provoca vertigini, ma qualcosa di profondamente umano, umile, fonte di serenità e di consolazione. Con tutta la loro vita di ascesi e di ritiro, i monaci non si sono allontanati dall'uomo: vi hanno invece fatto ritorno... Sono diventati veri uomini». È obbligatorio tener presente la tensione, direi calcedonese, del vissuto del monaco (paradigma del cristiano radicale in quanto radicato in Cristo): egli è un pellegrino, un profeta silenzioso di cui il mondo e la chiesa hanno bisogno per sentirsi contestati nelle proprie pretese di autosufficienza e di sistemazione mondana. Il paradosso è che il monachesimo non nega l’umanesimo, ma lo protegge dalla mondanità. Il suo qualificativo inscindibile è l’eschaton, è un «umanesimo escatologico».