"Vi do la mia pace" (Gv 14,27) – La pace come dono di Dio in Cristo Gesù

Prima Predica di Avvento 2014 di padre Raniero Cantalamessa, ofmcap / Testo integrale

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

Riportiamo di seguito il testo della Prima Predica di Avvento 2014, tenuta questa mattina in Vaticano da padre Raniero Cantalamessa, ofmcap., predicatore della Casa Pontificia.

***

1. Siamo in pace con Dio!

Se si potesse ascoltare il grido più forte che c’è nel cuore di miliardi di persone, si udrebbe, in tutte le lingue del mondo, una parola sola: pace! La dolorosa attualità di questo tema, unita alla necessità di ridare alla parola pace la ricchezza e la profondità di significato che essa riveste nella Bibbia, mi ha spinto a dedicare a questo tema le meditazioni di Avvento di quest’anno. Ci aiuterà, spero, ad ascoltare con orecchi nuovi l’annuncio natalizio: “Pace in terra agli uomini che Dio ama” e anche a cominciare a vivere al nostro interno il messaggio che la Chiesa si appresta, come ogni anno, a rivolgere al mondo nella giornata mondiale della pace.

Cominciamo ascoltando l’annuncio fondamentale circa la pace. Sono parole di Paolo nella Lettera ai Romani:

”Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore, mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l’accesso a questa grazia nella quale stiamo fermi; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio (Rom 5, 1-2).

Io ricordo ancora quello che successe il giorno che finì, per l’Italia, la seconda guerra mondiale. Il grido “Armistizio! Pace!” rimbalzò dalla città alla campagna, di casa in casa. Era la fine di un incubo; non più terrore, non più bombardamenti, non più fame. Sembrava di tornare finalmente a vivere. Qualcosa del genere doveva provocare, nel cuore dei lettori, quell’annuncio dell’Apostolo: “Abbiamo pace con Dio! È stata fatta la pace! Un’era nuova è iniziata per l’umanità nel suo rapporto con Dio!” La loro è stata definita “un’epoca di angoscia”[1]. Gli uomini del tempo avevano l’impressione (tutt’altro che infondata) di una condanna che pesava sul loro capo; Paolo la chiama “la collera di Dio che si rivela dal cielo contro ogni empietà” (Rom 1, 18). Di qui, i riti e culti esoterici di propiziazione che pullulavano nella società pagana del tempo.

Quando parliamo di pace, noi siamo portati a pensare quasi sempre a una pace orizzontale: tra i popoli, tra le razze, le classi sociali, le religioni. La parola di Dio ci insegna che la prima e più essenziale pace è quella verticale, tra cielo e terra, tra Dio e l’umanità. Da essa dipendono tutte le altre forme di pace. Lo vediamo nel racconto stesso della creazione. Finché Adamo ed Eva sono in pace con Dio, c’è pace dentro ognuno di loro tra carne e spirito (erano nudi e non ne provavano vergogna), c’è pace tra l’uomo e la donna (“carne della mia carne”), tra l’essere umano e il resto della creazione. Appena essi si ribellano a Dio, tutto entra in lotta: la carne contro lo spirito (si accorgono di essere nudi), l’uomo contro la donna (“la donna mi ha sedotto”), la natura contro l’uomo (spine e triboli), il fratello contro il fratello, Caino contro Abele.

Per questo motivo ho pensato di dedicare questa prima meditazione alla pace come dono di Dio in Cristo Gesù. Nella seconda meditazione parleremo della pace come compito per cui lavorare e nella terza della pace come frutto dello Spirito, cioè della pace interiore dell’anima. Sono i tre ambiti della pace evocati in un inno della liturgia delle ore: “Pace fra cielo e terra, pace fra tutti i popoli, pace nei nostri cuori”[2].

2. La pace di Dio promessa e donata

L’annuncio di Paolo appena ascoltato presuppone che qualcosa è accaduto che ha cambiato il destino dell’umanità. Se adesso siamo in pace con Dio, vuol dire che prima non lo eravamo; se adesso “non c’è più nessuna condanna” (Rom 8,1), vuol dire che prima c’era una condanna. Vediamo che cos’è che ha prodotto un tale decisivo cambiamento nei rapporti tra l’uomo e Dio.

Di fronte alla ribellione dell’uomo – il peccato originale – Dio non abbandona l’umanità al suo destino, ma decide un nuovo piano per riconciliarlo con sé. Un esempio banale, ma utile per capire, è quello che avviene oggi con i cosiddetti navigatori satellitari installati sulle auto. Se a un certo punto l’autista non segue l’indicazione datagli dall’alto dal navigatore; svolta, per esempio, a sinistra, anziché a destra, il navigatore in pochi istanti gli traccia un nuovo itinerario, a partire dalla posizione in cui si trova, per giungere alla destinazione desiderata. Così ha fatto Dio con l’uomo, decidendo, dopo il peccato, il suo piano di redenzione.

La lunga preparazione comincia con le alleanze bibliche. Sono per così dire “paci separate”. Dapprima con persone singole: Noè, Abramo, Giacobbe; poi, attraverso Mosè, con tutto Israele che diventa il popolo dell’alleanza. Queste alleanze, a differenza di quelle umane, sono sempre alleanze di pace, mai di guerra contro i nemici.

Ma Dio è Dio di tutta l’umanità: “È forse Dio, Dio soltanto dei giudei? Non è anche Dio dei pagani”, esclama san Paolo (Rom 3, 29). Queste alleanze antiche erano perciò per se stesse temporali, destinate a essere estese un giorno a tutto il genere umano. Infatti i profeti cominciano a parlare sempre più chiaramente di una “alleanza nuova ed eterna”, di una “alleanza di pace” (Ez 37, 26), che da Sion e da Gerusalemme si estenderà a tutte le genti (cf. Is 2, 2-5).

Questa pace universale viene presentata come un ritorno alla pace iniziale dell’Eden, con immagini e simboli che la tradizione ebraica interpreta in senso letterale e quella cristiana in senso spirituale:

“Trasformeranno le loro spade in vomeri d’aratro, e le loro lance, in falci; una azione non alzerà più la spada contro un’altra, e non impareranno più la guerra” (Is 2,4). “Il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà” (Is 11,6-7).

Il Nuovo Testamento vede realizzate tutte queste profezie con la venuta di Gesú. La sua nascita è rivelata ai pastori con l’annuncio: “Pace in terra agli uomini che Dio ama!” (Lc 2, 14). Gesú stesso afferma di essere venuto in terra a portarvi la pace di Dio: “Vi lascio, dice, la pace; vi do la mia pace” (Gv 14, 27). La sera di Pasqua, nel cenacolo, chissà con quali divine vibrazioni, esce dalla sua bocca di risorto la parola Shalom! Pace a voi! Come nell’annuncio degli angeli a Natale, essa non è solo un saluto o un augurio, ma qualcosa di reale che viene comunicato. Tutto il contenuto della redenzione era racchiuso in quella parola.

La Chiesa apostolica non si stanca di proclamare l’avvenuto compimento in Cristo di tutte le promesse di pace di Dio. Parlando del Messia che sarebbe nato a Betlemme di Giudea, il profeta Michea aveva preannunciato: “Egli sarà la nostra pace!” (Mi 5,4); esattamente quello che la Lettera agli Efesini afferma di Cristo: “Egli è la nostra pace” (Ef 2, 14).

3. La pace, frutto della croce di Cristo

Ma ora ci dobbiamo porre una domanda più precisa. È con la sua semplice venuta in terra che Gesú ha ristabilito la pace tra cielo e terra? È veramente la nascita del Signore “il natale della pace”, come diceva san Leone Magno[3], o lo è anche, e soprattutto, la sua morte? La risposta è contenuta nella parola di Paolo da cui siamo partiti: “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” (Rom 5,1). La pace viene dalla giustificazione mediante la fede e la giustificazione viene dal sacrificio di Cristo sulla croce! (cf. Rom 3, 21-26).

Di più, la pace è il contenuto stesso della giustificazione. Questa non consiste solo nella remissione (o, secondo Lutero, nella non-imputazione) dei peccati, cioè in qualcosa di puramente negativo, in un “togliere” qualcosa che c’era; comporta anche e soprattutto un el
emento positivo, un mettere qualcosa che non c’era: lo Spirito Santo e, con esso, la grazia e la pace.

Una cosa è chiara: non si comprende il cambiamento radicale avvenuto nei rapporti con Dio, se non si comprende che cosa è avvenuto nella morte di Cristo. Oriente e Occidente sono unanimi nel descrivere la situazione dell’umanità prima di Cristo e fuori di lui. Da una parte, c’erano gli uomini che, peccando, avevano contratto con Dio un debito e dovevano lottare contro il demonio che li teneva schiavi: tutte cose che non potevano fare, essendo il debito infinito e essi prigionieri di Satana da cui avrebbero dovuto liberarsi. Dall’altro lato c’era Dio che poteva espiare il peccato e vincere Satana, ma non doveva farlo, cioè non era tenuto a farlo, non essendo lui il debitore. Bisognava che ci fosse qualcuno che riunisse in se stesso colui che doveva combattere e colui che poteva vincere, e questo è ciò che è avvenuto con Cristo, Dio e uomo. Così si esprimono, in termini assai vicini, tra i greci Nicola Cabasilas e tra i latini sant’Anselmo d’Aosta.[4]

La morte di Gesú in croce è il momento in cui il Redentore compie l’opera della redenzione, distruggendo il peccato e riportando vittoria su Satana. Come uomo, quello che compie ci appartiene: “Cristo Gesù, è stato fatto da Dio, per noi, sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (1Cor 1,30), per noi! D’altra parte, in quanto Dio, ciò che opera ha un valore infinito e può salvare “tutti coloro che si accostano a lui” (Ebr 7,25).

Recentemente, c’è stato un profondo ripensamento sul senso del sacrificio di Cristo. Nel 1972 il pensatore francese René Girard lanciava la tesi secondo cui “la violenza è il cuore e l’anima segreta del sacro”[5]. All’origine infatti e al centro di ogni religione, compresa quella ebraica, c’è il sacrificio, il rito del capro espiatorio che comporta sempre distruzione e morte. Già prima però di questa data, quello studioso si era riavvicinato al cristianesimo e nella Pasqua del 1959 aveva reso pubblica la sua “conversione”, dichiarandosi credente e tornando alla Chiesa.

Questo gli permise di non fermarsi, negli studi successivi, all’analisi del meccanismo della violenza, ma di additare anche come uscire da esso. Secondo lui, Gesù smaschera e spezza il meccanismo che sacralizza la violenza, facendo di se stesso il volontario “capro espiatorio” dell’umanità, la vittima innocente di tutta la violenza. Cristo, diceva già la Lettera agli Ebrei (Ebr 9, 11-14), non è venuto con sangue altrui, ma con il proprio. Non ha fatto vittime, ma si è fatto vittima. Non ha messo i propri peccati sulle spalle degli altri –uomini o animali -; ha messo i peccati degli altri sulle proprie spalle: “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce” (1 Pt 2, 24).

Si può, allora, continuare a parlare del “sacrificio” della croce e quindi della Messa come sacrificio? Per molto tempo lo studioso ha rifiutato questo concetto, ritenendolo troppo segnato dall’idea di violenza, ma poi, con tutta la tradizione cristiana, ha finito per ammetterne la legittimità, a patto, dice, di vedere, in quello di Cristo, un genere nuovo di sacrificio, e di vedere in questo cambiamento di significato “il fatto centrale nella storia religiosa dell’umanità”[6].

Tutto ciò permette di capire meglio in che senso sulla croce è avvenuta la riconciliazione tra Dio e gli uomini. Di solito il sacrificio di espiazione serviva a placare un Dio irato per il peccato. L’uomo, offrendo a Dio un sacrificio, chiede alla divinità la riconciliazione e il perdono. Nel sacrificio di Cristo la prospettiva è rovesciata. Non è l’uomo a esercitare una influenza su Dio perché si plachi. Piuttosto è Dio ad agire affinché l’uomo desista dalla propria inimicizia contro di lui. “La salvezza non inizia con la richiesta di riconciliazione da parte dell’uomo, bensì con la richiesta di Dio di riconciliarsi con lui”[7]. In questa luce si capisce l’affermazione dell’Apostolo “È Dio che ha riconciliato con sé il mondo in Cristo” (cf. 2 Cor 5, 19) e ancora: “Mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio mediante la morte del Figlio suo” (Rom 5,10).

4.”Ricevete lo Spirito Santo!”

La pace che Cristo ci ha meritato con la sua morte di croce diventa attiva e operante in noi mediante lo Spirito Santo. Per questo, nel cenacolo, dopo aver detto agli apostoli: “Pace a voi”, soffiò su di loro e aggiunse, come d’un sol fiato: “Ricevete lo Spirito Santo!” (Gv 20, 22).

In realtà la pace viene, sì, dalla croce di Cristo, ma non nasce da essa. Viene da più lontano. Sulla croce Gesú ha distrutto il muro del peccato e dell’inimicizia che impediva alla pace di Dio di raggiungere l’uomo. La sorgente ultima della pace è la Trinità. “O Trinità beata, oceano di pace!”, esclama la liturgia in un suo inno. Secondo Dionigi Areopagita, “Pace” è uno dei nomi propri di Dio.[8] Egli è pace in stesso, come è amore e come è luce.

Quasi tutte le religioni politeistiche parlano di divinità in permanente stato di rivalità e di guerra tra di loro. La mitologia greca ne è l’esempio più noto. A rigore di termini, non si può parlare di Dio come fonte e modello di pace, neppure nel contesto di un monoteismo assoluto e numerico. La pace infatti, al pari dell’amore, non può esistere meno che tra due persone. Essa consiste in relazioni belle, in relazioni d’amore, e la Trinità è appunto questa bellezza e perfezione di relazioni. La cosa che colpisce di più quando si contempla l’icona della Trinità di Rublev è il senso di sovrumana pace che emana da essa. 

Quando perciò Gesú dice: “Shalom!” e “Ricevete lo Spirito Santo”, egli comunica ai discepoli qualcosa della “la pace di Dio che sorpassa ogni comprensione” (Fil 4,7). In questo senso, pace è quasi un sinonimo di grazia e infatti i due termini sono usati insieme, come una specie di binomio, all’inizio delle lettere apostoliche: “Grazia e pace a voi da parte di Dio e del Signore nostro Gesú Cristo” (Rom 1, 7; 1 Tess 1, 1). Quando nella Messa viene proclamato: “La pace sia con voi”, “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace” e, alla fine, “Andate in pace”, è di questa pace come dono di Dio che si parla. 

5. “Lasciatevi riconciliare con Dio!” 

Vorrei cercare di mettere in luce come questo dono della pace, ricevuto ontologicamente e di diritto nel battesimo, deve cambiare a poco a poco, anche di fatto e psicologicamente, il nostro rapporto con Dio. L’appello accorato di Paolo: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5, 20) è rivolto a dei cristiani battezzati che vivono da tempo in comunità. Non si riferisce perciò alla prima riconciliazione e neppure, evidentemente, a quello che noi chiamiamo “il sacramento della riconciliazione”. In questo senso attuale ed esistenziale, esso è rivolto anche a ciascuno di noi e cerchiamo di capire in che consiste. 

Una delle cause, forse la principale, dell’alienazione dell’uomo moderno dalla religione e dalla fede è l’immagine distorta che esso ha di Dio. Questa è anche la causa di un cristianesimo spento, senza slancio e senza gioia, vissuto più come dovere che come dono. Penso a come era la grandiosa immagine di Dio Padre nella Cappella Sistina quando la vidi la prima volta, tutta ricoperta da una patina oscura, e come è ora, dopo il restauro, con i colori vivaci e i contorni nitidi con cui era uscita dal pennello di Michelangelo. Un restauro più urgente dell’immagine di Dio Padre deve avvenire nel cuore degli uomini, compresi noi credenti.

Qual è infatti l’immagine “predefinita” di Dio (nel linguaggio dei computer, che opera cioè come default) nell’inconscio umano collettivo? Basta, per scoprirlo, porsi questa domanda e porla anche agli altri: “Quali idee, quali parole, quali realtà sor
gono spontaneamente in te, prima di ogni riflessione, quando dici: Padre nostro che sei nei cieli … sia fatta la tua volontà”? Chi lo dice, china in genere la testa rassegnato, come preparandosi al peggio.

Inconsciamente, si collega la volontà di Dio a tutto ciò che è spiacevole, doloroso, a ciò che, in un modo o nell’altro, può essere visto come mutilante la libertà e lo sviluppo individuali. È un po’ come se Dio fosse nemico di ogni festa, gioia, piacere. Non si pensa che la volontà di Dio è chiamata nel Nuovo Testamento eudokia (Ef 1,9; Lc 2, 14), cioè volontà buona, benevolenza, per cui dire “sia fatta la tua volontà” è come dire “si compia in me, o Padre, il tuo disegno d’amore”. Così Maria disse il suo “fiat” e così lo disse Gesú.

Un’altra domanda rivelatrice. Cosa suggerisce in noi l’invocazione Kyrie eleison, “Signore, pietà!” che punteggia la preghiera cristiana e, in alcune liturgie, accompagna la Messa dall’inizio alla fine? Essa ha finito per diventare quasi solo la richiesta di perdono della creatura che vede Dio sempre in procinto (e in diritto) di punirlo. La parola pietà è diventata tanto svilita da essere usata spesso in senso negativo, come qualcosa di meschino e di spregevole: “fare pietà”, uno spettacolo “pietoso”. Stando alla Bibbia, Kyrie eleison si dovrebbe tradurre: “Signore fa scendere la tua tenerezza su di noi”. Basta leggere come Dio parla del suo popolo in Geremia: “Il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza” (eleos) (Ger 31, 20). Quando i malati, i lebbrosi e i ciechi gridano a Gesú: “Signore, abbi pietà (eleeson) di me!” (Mt 9,27), non intendono dire: “perdonami”, ma “abbi compassione di me”.

Dio è visto in genere come l’Essere supremo, l’Onnipotente, il Signore del tempo e della storia, cioè come un’entità che si impone all’individuo dall’esterno; nessun particolare della vita umana gli sfugge. La trasgressione della sua Legge introduce inesorabilmente un disordine che esige una riparazione. Non potendo, questa, ritenersi mai adeguata, sorge l’angoscia della morte e del giudizio divino.

Si rimane sconcertati a leggere le parole che il grande Bossuet rivolge a Gesú sulla croce, in un suo discorso del Venerdì Santo: “Ti getti, o Gesù, tra le braccia del Padre e ti senti respinto, senti che è proprio lui che ti perseguita, che ti colpisce, lui che ti abbandona, proprio lui che ti schiaccia sotto il peso enorme e insopportabile della sua vendetta… La collera di un Dio irritato: Gesù prega e il Padre adirato non l’ascolta; è la giustizia di un Dio vendicatore degli oltraggi ricevuti; Gesù soffre e il Padre non si placa!”[9] Se così parlava un oratore dell’elevatezza del Bossuet, possiamo immaginare a che cosa si abbandonavano i predicatori popolari del tempo. Si capisce allora come è venuta formandosi quella certa immagine “predefinita” di Dio nel cuore dell’uomo.

Certo, non si è mai ignorata la misericordia di Dio! Ma ad essa si è affidata soltanto l’incombenza di moderare gli irrinunciabili rigori della giustizia. Anzi, nella pratica, si sono fatti dipendere l’amore e il perdono che Dio largisce dall’amore e dal perdono che si dona agli altri: se perdoni chi ti reca l’offesa, Dio potrà, a sua volta, perdonarti. E questa, in realtà, è la strada della disperazione. È venuto fuori con Dio un rapporto di mercanteggiamento. Non si dice che bisogna accumulare meriti per guadagnare il Paradiso? E non si attribuisce grande rilevanza agli sforzi da fare, alle messe da far celebrare, alle candele da accendere, alle novene da fare?

Tutto questo, avendo permesso a tanta gente in passato di dimostrare a Dio il proprio amore, non può essere gettato alle ortiche, va rispettato. Dio fa sbocciare i suoi fiori – e i suoi santi – in ogni clima. Non si può negare però che c’è il rischio di cadere in una religione utilitaria, del “do ut des”. Alla base di tutto c’è il presupposto che il rapporto con Dio dipenda dall’uomo. Egli non può presentarsi davanti a Dio con le mai vuote, deve avere qualcosa da donargli. Ora è vero che Dio dice a Mosè: “Nessuno si presenterà davanti a me a mani vuote” (Es 23,15; 34, 20), ma questo è il Dio della legge, non ancora della grazia. Nel regno della grazia, l’uomo deve presentarsi a Dio proprio “a mani vuote”; l’unica cosa che deve avere “nelle mani” nel presentarsi a lui, è il suo Figlio Gesú.

Ma vediamo come lo Spirito Santo, quando ci si apre ad esso, cambia questa situazione. Egli ci insegna a guardare a Dio con un occhio nuovo: come il Dio della legge, certo, ma prima ancora come il Dio dell’amore e della grazia, il Dio “misericordioso e pietoso; lento all’ira e grande nell’amore” (Es 34,6). Ce lo fa scoprire come alleato, amico, come colui che “non si è risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi” (è così va inteso Rom 8, 32!); insomma, come Padre tenerissimo. In una parola, lo Spirito Santo ci comunica il sentimento che aveva Gesú del Padre suo. Sboccia allora il sentimento filiale che si traduce spontaneamente nel grido: Abbà, Padre! Come chi dice: “Io non ti conoscevo, o ti conoscevo solo per sentito dire; ora ti conosco, so chi sei, so che mi vuoi bene davvero, che mi sei favorevole”. Il figlio ha preso il posto dello schiavo, l’amore quello del timore. È così che si è veramente “in pace con  Dio”, anche sul piano soggettivo ed esistenziale.

Partiamo per il nostro lavoro quotidiano con una domanda: Quale idea di Dio Padre c’è nel mio cuore: quella del mondo o quella di Gesù?

*

NOTE

[1] E. R. Dodds, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia. Aspetti dell’esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, Firenze, La Nuova Italia 1993.

[2] Inno delle Lodi della III domenica del tempo Ordinario.

[3] S. Leone Magno, In Nativitate Domini, XXXVI,5 (PL 54, 215).

[4] N. Cabasilas, Vita in Cristo, I, 5 (PG 150, 313); Cf Anselmo, Cur Deus homo?, II, 18.20; Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, III, q. 46, art. 1, ad 3.

[5] Cfr. R. Girard, La violence et le sacré, Grasset, Parigi 1972.

[6] Cf. R. Girard, Il sacrificio, Milano 2004.

[7] G. Theissen – A. Merz, Il Gesú storico, Queriniana, Brescia 2003, p. 573.

[8] Pseudo Dionigi Areopagita, I nomi divini, XI, 1 s (PG 3, 948 s).

[9] J.B. Bossuet, Œuvres complètes, IV, Parigi 1836, p. 365.

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione