Nei giorni in cui si approva il nuovo codice deontologico medico, è utile leggere un breve e intenso libro intitolato Dottori tra le righe (Ed. Ancora) per imparare cosa il mondo si aspetta dalla medicina. Lo facciamo guidati dall’autore del libro, Giuseppe Banfi, medico che insegna ai medici a fare un passo indietro e a guardarsi come li guardano gli altri – quando si è troppo immersi in un certo mondo è difficile giudicarlo e portare utili cambiamenti -. Gli estensori del nuovo codice deontologico – bello o brutto che ci sembri – avrebbero dovuto leggerlo attentamente.
Anni 2000, medicina-burocrazia: si perde di vista che l’orizzonte del medico non è il puro guadagno o il budget dell’ospedale o un presunto benessere sociale; e che la medicina è un’arte. Le parole per descrivere cosa il medico è tenuto a fare si moltiplicano, e i codici deontologici diventano meandri di cavilli. Banfi allora ci fa fare il suddetto passo indietro portandoci per mano tra le righe di 52 grandi autori letterari, da Calvino a Tolstoj, per mostrarci come “il mondo non medico” guarda il medico, il suo operare, la sua solitudine, il suo errore. E sorpresa: il mondo non medico vuole sempre e ancora che la medicina sia un’arte, cioè che unisca alla competenza tecnica la capacità umana, proprio il contrario di quello che sembrerebbe apparire sui giornali, cioè un medico-capotreno che stili un contratto col paziente e che sia tenuto a “portarlo da qui a lì” (… al di fuori di questo e oltre questo nulla sembra più richiesto, nulla sembra più dovuto).
Da tutti gli autori riportati nel volume, esce una richiesta pressante di un medico-uomo, ma anche di un medico-padre e un medico-amico, perché sanno che la malattia e la sofferenza sono un fatto chimico ma non solo. Scrive infatti Banfi: “La fiducia è l’elemento cardine del rapporto con qualsiasi professionista, ma in particolar modo col medico. Spesso i pazienti mantengono, in caso di insoddisfazione o di danno, la fiducia nel medico e scaricano la sfiducia e il disprezzo sull’organizzazione”.
E partono le citazioni che mostrano l’ampiezza dell’orizzonte medico e i limiti che subisce. “Credere alla medicina sarebbe la più gran follia, se non crederci non fosse una follia ancor più grande”, scrive Marcel Proust; e gli fa eco Ernest Hemingway, facendo parlare un ufficiale medico: “Il mio mestiere è quello di curare i feriti, non di ucciderli. Questo spetta ai signori dell’artiglieria”. E scrive Jonathan Coe: “Del mio medico non mi fido. A quel che vedo, in questi giorni, impiega tutte le sue energie per pareggiare il bilancio e contenere le spese. Ho avuto l’impressione di non essere presa molto sul serio”.
Ma Banfi non si limita a riportare quadri dipinti con le parole da maestri della letteratura, ma attualizza e commenta i quadri stessi, e li contestualizza in un mondo in cui si parla di sfide bioetiche recenti, di innovazioni tecnologiche, di fecondazione, di nascite premature e di cure di fine-vita; e di tanta burocrazia. “L’esterofilia tipica del nostro Paese – scrive commentando un testo di Anne Enquist –non risparmia la sanità e la sua gestione. Abbiamo adottato i DRG degli stati uniti, il sistema sanitario nazionale del Regno Unito, qualcuno si affida alla Joint Commission americana, qualcuno alle linee-guida scozzesi, qualcun altro invoca i DRG australiani. Il sistema ospedaliero olandese è costituito da fondazioni no-profit e qualche anno fa ha avuto il suo quarto d’ora di notorietà anche da noi (…) ma speriamo che gli olandesi, che stanno cambiando comportamento sulla droga libera e sulle ragazze in vetrina, che hanno deciso di non abbattere l’albero ormai vecchio e malato che Anna Frank vedeva dalla sua soffitta, cambino anche idea sul trattamento della persona, magari studiando in un altro Paese”.
Oppure scrive, commentando l’esame di ammissione alla professione medica descritto ne La Cittadella di AJ Cronin: “Lo studente di medicina è troppo occupato a studiare per conoscere la medicina, esce dall’università conoscendo tanti nomi di malattie e di farmaci che dovrebbero servire a curarle; i medici dovrebbero lavorare in gruppo e condividere il loro sapere, studiare realmente le cause delle malattie invece di distribuire boccettine di farmaci”. D’altronde, scrive commentando Jonathan Coe, “La gente che lavora nella sanità ha motivazione, ma sente che non vi è un premio e forse anche un interesse per chi lo dimostra”.
Ecco cosa dovrebbe esprimere un codice deontologico – bello o brutto che sia quello ora varato -: non mille regole ma il significato della professione. Guardando solo a diritti e doveri, mansioni e budget, si è passati da un giuramento ippocratico di otto righe a un codice deontologico di ottanta paragrafi; perché quando scompare il cuore, il battito della vita, una morale condivisa, una storia comune, il senso di una professione. Si può cercare di sostituire tutto questo con delle norme, con tanti paragrafi e cavilli, ma non basta; e i medici, come titolava poco tempo fa il British Medical Journal, restano infelici.