Tanta precarietà, ma tanta sete di verità e amore

Il discorso di monsignor Dal Covolo durante il seminario alla Pontificia Università Lateranense

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ROMA, venerdì, 24 febbraio 2012 (ZENIT.org) – Riportiamo di seguito il discorso introduttivo che mons. Enrico Dal Covolo, Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense ha tenuto al seminario “I giovani e la crescita. Formazione, impresa e lavoro” svoltosi ieri pomeriggio nell’Aula Paolo VI dell’Ateneo.

L’iniziativa rientrava nelle attività del corso di alta formazione “Etica, Finanza, Sviluppo” promosso dall’Area internazionale di ricerca Caritas in Veritate dell’Ateneo Lateranense e dall’Accademica internazionale per lo sviluppo economico e sociale (Aises) in collaborazione con l’Ufficio per la Pastorale universitaria del Vicariato di Roma.

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Signore e Signori,

come ebbi modo di dire nel seminario introduttivo di questo “Corso di alta formazione” il 26 ottobre 2011, la nostra Università ha tra i suoi scopi non soltanto la ricerca accademica, ma anche – e soprattutto – la preparazione dei giovani alla loro vita futura, che di necessità deve tener conto dei temi, di cui ci occuperemo: “Formazione, impresa, lavoro”.

1. C’è infatti un interesse prospettico – se possiamo chiamarlo così –, che riguarda la situazione giovanile e i problemi che attengono alla crescita economica, ai processi imprenditoriali e al mercato del lavoro.

I giovani potranno crescere e fiorire in quanto persone, se troveranno un mercato e un mondo del lavoro che consentono a loro di compiere la vocazione fondamentale dell’uomo in rapporto al mondo, cioè la custodia e la cura di quel giardino, di cui parla il secondo capitolo della Genesi.

Si tratta di una vocazione radicata nel pensiero creatore di Dio, e dunque di un compito che non può rimanere senza risposta, pena il fallimento o il non-senso dell’esistenza.

Sappiamo, però, che il lavoro individuale oggi non è pensabile, se non innervato in strutture organizzative ed economiche che precedono e sostengono l’impegno individuale: e sappiamo bene che non tutti i modelli economici e sociali sono adeguati all’antropologia cristiana.

Esiste una responsabilità propria del mondo degli adulti nei confronti del mondo giovanile. Si tratta di coniugare tra loro la realtà della persona che lavora e quella organizzativa, che accoglie l’attività lavorativa e i relativi processi politici, giuridici ed economici: essi consentono l’incontro virtuoso tra la persona che lavora e quella speciale comunità di donne e di uomini lavoratori, che chiamiamo impresa. Il tutto dentro modelli che siano rispettosi della dignità e della vocazione fondamentale dell’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio.

2. Ma bisogna subito aggiungere che c’è anche un interesse immediato per il nostro tema. Esso riguarda l’attuale “emergenza educativa”.

A partire da questa emergenza, i Vescovi italiani hanno dedicato alcuni paragrafi importanti dei loro Orientamenti pastorali per questo decennio 2010-2020 al rapporto tra l’educazione dei giovani e gli ambiti della vita quotidiana (Educare alla vita buona del Vangelo).

Molti giovani manifestano oggi un disagio profondo di fronte a una vita che si presenta povera di prospettive in ogni senso: dal lavoro alla famiglia ai valori. Tale provvisorietà (o, come è in voga dire oggi, tale precarietà) rischia di dipingere tutto come provvisorio e precario: gli impegni affettivi, le passioni ideali, la creatività imprenditoriale, i legami sociali, la stessa fede in Dio. Da qui vengono sofferenze interiori, solitudine, omologazione e più in generale quella paura del futuro che blocca lo sviluppo e la crescita.

Ci sono fenomeni che fanno pensare: ragazzi sfiduciati e depressi, oppure giovani schiavi di dipendenze nocive, dall’alcool all’erotismo. Vi cito solo alcuni titoli di studi seri e aggiornati della sociologia giovanile, che cercano di ritrarre quello che sta capitando: Perché siamo infelici; L’epoca delle passioni tristi; Fragile e spavaldo, ritratto dell’adolescente di oggi. Un altro titolo eloquente è quello del saggio di Umberto Galimberti: L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani.

Che cos’è il nichilismo? Non c’è niente per cui valga la pena vivere e morire, combattere e lavorare, sperare e soffrire. Di qui l’insaziabilità del desiderio e la ricerca di evasioni sempre più depravate, la mancanza di senso spirituale, l’analfabetismo emotivo. Non apro il discorso sulle ricadute dell’uso dei personal media e dei social network, che con la strada sono ormai diventati luoghi dove incontrare i giovani e stabilire con loro una relazione educativa. Così come non lo apro sul bullismo scolastico.

A fronte di tanta precarietà permane e resiste, tuttavia, una grande sete di significato, di verità e di amore. È a questo livello profondo che occorre portare, secondo me, l’investigazione sulla persona e il positivo rapporto da istituire tra la persona e le comunità di appartenenza, la società più vasta, e quindi anche il mondo imprenditoriale e il mercato del lavoro. Ne ha trattato, come ben sapete, papa Benedetto nel terzo capitolo della Caritas in veritate. Ed è per questo motivo che la nostra Università ha istituito un’apposita Area di ricerca, denominata – in onore di papa Benedetto XVI –  “Caritas in Veritate”, e dedicata allo studio della Dottrina sociale della Chiesa.

3. Permettete che vi ripeta che indagare e occuparsi di formazione, impresa e lavoro sarà tanto più efficace quanto più chi lo fa sarà ricco di umanità, saprà farsi maestro, testimone e compagno di strada dei giovani. Adulti così sapranno ascoltare i giovani, ridestare e ricondurre a Gesù Cristo le loro domande sul senso della vita e del loro futuro, sfidarli a prendere sul serio la proposta cristiana, facendone esperienza nella comunità.

A questo punto, consentitemi di ricordare l’incontro che il nostro gradito ospite, il Presidente Luca Cordero di Montezemolo, ebbe con Sua Santità Giovanni Paolo II nel 2004. L’allora Presidente della Confindustria ebbe modo di presentare l’Azienda che presiede con le stesse parole con le quali Karol Wojtyla, nella Centesimus annus, definì l’impresa cristianamente intesa “una comunità di lavoro”.

Al di là della specifica circostanza, tali parole invitano le realtà accademiche, imprenditoriali e religiose a un’attenta riflessione sul modo in cui le peculiari visioni antropologiche giudicano e, in parte, condizionano la concezione del lavoro, il ruolo dell’imprenditore, la funzione dell’impresa e le dinamiche della libera economia di mercato. E’ questo, in ambito economico, lo specifico compito che si è data l’Area Internazionale di Ricerca “Caritas in Veritate”, che ospita il seminario odierno.

In definitiva, l’idea d’impresa proposta dal beato papa Giovanni Paolo II prima, e oggi da Benedetto XVI, ci consente di intervenire su un tema fortemente dibattuto e di grande rilevanza economica, politica e culturale: il rapporto tra crescita economica e sviluppo integrale della persona. Sul versante cattolico possiamo contare su un ampio e consolidato spettro di studi, che tentano da anni di interpretare il vasto sistema teorico sviluppato dal Magistero sociale della Chiesa.

Nella Centesimus annus Giovanni Paolo II affermava la legittimità pratica e morale del profitto: “La Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell’azienda”. La nozione di profitto, che informa le parole della Centesimus annus, può essere espressa sotto forma di parametro indispensabile per la misurazione della soddisfazione del cliente, nell’ambito di un variegato contesto, nel quale si confrontano e si articolano i valori, le fedi e le culture di tutti coloro che concorrono al buon esito del proce
sso produttivo, coordinati da chi si assume il ragionevole rischio imprenditoriale di investire il proprio denaro, il proprio talento, il proprio tempo e la propria reputazione, per porre in essere un’organizzazione del lavoro produttivo: “Quando un’azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati e i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti” (CA, n. 35).

La Centesimus annus, allora, nel paragrafo 42, esprime una tanto netta quanto condizionata preferenza per quella che Giovanni Paolo II chiamava “l’economia d’impresa”, “l’economia di mercato” o “economia libera” fondata sull’impresa, sul mercato, sulla libertà, sulla responsabilità, sulla creatività che caratterizzano l’agire umano, all’interno di una cornice legislativa che ne regoli e ne limiti la discrezionalità; il che collega idealmente la proposta della Dottrina sociale della Chiesa alla tradizione dell’economia sociale di mercato.

4. In sintonia con lo spirito di questo filone di pensiero, le dinamiche economiche, tanto per Giovanni Paolo II quanto per Benedetto XVI, non si svolgono nella nuda piazza, ma si realizzano sempre all’interno di un determinato contesto culturale. Il mercato, ad esempio, è limitato da un lato da un ordine giuridico e dall’altro da istituzioni morali quali la famiglia e la Chiesa. Le istituzioni politiche, giuridiche e culturali interagiscono, influenzandosi a vicenda.

In questo senso, allora, la comprensione dell’intima relazione tra i concetti cristianamente intesi di formazione, di impresa e di lavoro è indispensabile per l’elaborazione di una matura nozione di crescita economica, che non sia mera crescita quantitativa, ma autentico sviluppo integrale della persona. Secondo questa prospettiva, l’obiettivo primario dell’impresa è lo sviluppo integrale e non la semplice crescita, realizzata anche attraverso il profitto.

Sappiamo tutti che in assenza di profitto non può esserci sviluppo né in un’economia di mercato né in un’economia collettivizzata. Tuttavia, il profitto, conditio sine qua non, non è ancora sufficiente a garantire lo sviluppo integrale, perché “c’è il profitto senza sviluppo, c’è profitto senza qualità, c’è il profitto monopolistico, c’è il profitto senza il progresso dell’accumulazione tecnologica e della conoscenza organizzativa, c’è il profitto che deriva solo da connivenze di chi gestisce le casse pubbliche, c’è il profitto che devasta la terra, c’è il profitto che degrada la città, c’è il profitto che è solo apparente perché parte dei suoi costi di produzione si scaricano in bilanci diversi da quelli dell’impresa, c’è il profitto che miete solo e ha smesso di seminare; c’è il profitto sterile che non svolge più la sua funzione fecondatrice; c’è il profitto che, in realtà, è ormai solo consumo di quanto altri hanno accumulato nell’impresa; perché ci sono profitti di guerra; perché ci sono profitti di regime; perché c’è il profitto che deriva da spericolate speculazioni finanziarie; perché c’è il profitto tesaurizzato e non distribuito con equilibrio tra i fattori della produzione”.[2]

Ecco, dunque, c’è profitto e profitto, crescita e crescita, impresa e impresa, lavoro e lavoro; a noi interessa il profitto che nasce dall’innovazione, la crescita che si traduce in sviluppo, l’impresa come “comunità di uomini che lavorano”, e il lavoro come opera attraverso la quale la persona realizza la sua più intima vocazione. La prospettiva delineata dalla Dottrina sociale della Chiesa condivide una nozione di impresa e una di lavoro sintetizzate dal principio di soggettività creativa sviluppato proprio da Giovanni Paolo II nella Centesimus annus.

Sulla base di tale principio, l’imprenditorialità è intesa come la virtù che rivela la soggettività creativa della persona, che le consente di accrescere la propria umanità e che le permette di porre in essere nel tempo presente un’organizzazione del lavoro produttivo, in considerazione delle condizioni incerte di un futuro ignoto; ovvero essa è l’attitudine, sottoposta a vincoli, a gestire (oggi) i flussi produttivi presenti sul territorio, facendoli interagire con il principale fattore di produzione: il capitale umano, per la realizzazione di beni e servizi da destinare al mercato (domani).

5. Infine, anche per valorizzare il recente Messaggio del Papa per la Quaresima del 2012, mi sembra importante evocare la categoria della fraternità, con la quale devono interagire decisamente la formazione, l’impresa e il lavoro, in vista di uno sviluppo autentico.

Anche questo tema è trattato ampiamente nella Caritas in veritate, ma viene ripreso pure nel Messaggio per la Quaresima, là dove il Papa riporta un passo della Populorum Progressio. “Il mondo è malato”, scriveva Paolo VI nel 1967; e con queste parole profetiche concludo il mio intervento: “Il mondo è malato. Ma il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli”.

Ci auguriamo tutti che i lavori di questo Convegno possano contribuire a incrementare i rapporti di fraternità – e dunque l’autentico sviluppo – nell’impresa e nel lavoro.

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ZENIT Staff

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