ROMA, giovedì, 9 febbraio 2012 (ZENIT.org) – I vescovi cattolici della Corea del Sud hanno ribadito il loro “no” all’aborto e hanno chiesto alla classe politica di rivedere la legge sulla salute riproduttiva del 1973, che di fatto legalizzò la prassi nel Paese asiatico.
Come ha ricordato il sito Eglises d’Asie (8 febbraio), da vari anni ormai l’episcopato della Corea del Sud celebra ogni anno una Messa il lunedì più vicino all’8 febbraio, giorno in cui nel 1973, sotto l’allora regime militare, fu promulgata, senza alcuna previa consultazione popolare, la “Legge sulla salute della madre e del bambino”.
A presiedere la liturgia nella Cattedrale di Myeongdong di Seoul, alla quale hanno partecipato circa un migliaio di fedeli, è stato quest’anno il vescovo della diocesi di Cheongju, monsignor Gabriel Chang Bong-hun, presidente del Comitato di Bioetica della Conferenza Episcopale.
Rivolgendosi ai fedeli, il presule ha chiesto l’abrogazione dell’articolo 14 della legge, che “incoraggia le donne a ricorrere all’aborto”. “La Chiesa cattolica insegna – ha ricordato il vescovo – che la vita umana comincia al momento del concepimento” e che “l’aborto e la distruzione di embrioni umani sono crimini gravi che minacciano la vita”.
Come spiega Eglises d’Asie, l’articolo 14 della legge in questione consente l’aborto in tre situazioni: quando la gravidanza è frutto di stupro o incesto, inoltre quando il feto presenta difetti genetici o congeniti, e infine, quando la salute della madre è a rischio.
Una revisione della normativa, realizzata nel luglio del 2009, ha ridotto il limite legale entro il quale si può abortire dalla 28° alla 24° settimana della gravidanza, eliminando inoltre malattie come l’emofilia e l’epilessia dall’elenco di patologie per l’aborto detto “terapeutico”.
Nel Paese asiatico, l’aborto è una “realtà massiccia”, scrive Eglises d’Asie. Su una popolazione di circa 48,7 milioni di abitanti, il governo registra circa 340.000 aborti all’anno. Secondo la Chiesa cattolica, invece, il numero reale è molto più elevato, cioè circa 1,5 milioni.
La spiegazione per tale discrepanza è semplice: essendo l’aborto un intervento che non viene rimborsato dalla casse malattia, viene pagato spesso in contanti o “sotto banco” e non compare dunque nelle statistiche ufficiali. In un Paese con un tasso di fertilità molto basso (tra i più bassi a livello mondiale), l’aborto serve a gonfiare gli incassi di ginecologi ed ostetrici.
Le voci che si alzano contro l’aborto sono “abbastanza rare”, prosegue Eglises d’Asie. Si sottolinea in particolare che la legge del 1973 è stata approvata sotto un regime militare e che, essendo oggi un Paese democratico, la Corea della Sud deve modificare il testo. Inoltre, così osservano, il governo è molto lassista nell’applicazione della normativa.
Secondo il presidente dell’Associazione coreana dei medici pro-vita, il dottor Cha Hee-jae, la legge viene infatti quotidianamente violata. Il medico ha citato l’esempio di un centro di accoglienza per donne vittime di violenze sessuali che ha consigliato ad una donna messa incinta da un amico di dichiarare di essere stata stuprata per poter abortire senza alcuna difficoltà. “Il centro conosce perfettamente l’articolo 14 e fornisce i suoi consigli in funzione di esso”, ha detto il dottor Cha, chiedendo con urgenza una modifica della legge.
Secondo uno studio del 2005, dei circa 340.000 aborti ufficialmente censiti appena il 4,4% rientra nel quadro dell’aborto legale. Tutti gli altri – sottolinea Eglises d’Asie – sono frutto di convenienza personale, sociale o economica.
Anche se il punto di vista della Chiesa cattolica rimane marginale, il governo di Seoul, sempre più preoccupato per l’impatto della denatalità e del crescente invecchiamento della popolazione, sta mettendo in atto una politica per favorire le nascite. Sui muri della metropolitana sono apparsi manifesti con il seguente messaggio: “Abortendo, voi abortite il futuro”. Ma una revisione della legge sull’aborto non è ancora all’ordine del giorno, conclude il sito delle Missioni Straniere di Parigi.