di Eugenio Fizzotti
ROMA, mercoledì, 8 febbraio 2012 (ZENIT.org) – In vista della Giornata Mondiale del malato è quanto mai significativo riportare una presentazione del pensiero dello psichiatra austriaco Viktor E. Frankl, fondatore della “logoterapia e analisi esistenziale”, considerata la “Terza Scuola Viennese di psicoterapia”, concentrata sulla ricerca del senso della vita e sugli atteggiamenti da assumere nei confronti di situazioni di sofferenza.
È indicativo un episodio che Viktor E. Frankl, narrava spesso ai suoi uditori. Un uomo incontra per strada il medico di famiglia, che si informa del suo stato di salute. Immediatamente il medico si accorge che il suo paziente è diventato un po’ duro di orecchi. «Probabilmente lei beve troppo; smetta di bere e potrà sentire meglio», gli consiglia. Alcuni mesi più tardi i due si incontrano nuovamente per strada e il medico, per chiedere notizie circa l’attuale stato di salute del paziente, alza la voce per farsi sentire. «Non c’è bisogno di gridare, dottore. Io sento benissimo». «Certamente lei ha smesso di bere, non è così? Continui in questa cura». Dopo qualche tempo s’incontrano per la terza volta. Ma di nuovo il dottore deve alzare la voce per farsi capire. «Probabilmente, lei ha ripreso a bere», dice al paziente. E questi gli spiega: «Ascolti, dottore. Prima bevevo e il mio udito era cattivo. Dopo smisi di bere e sentivo meglio. Però ciò che sentivo non era così buono come il whisky».
Ecco il commento di Frankl: «In mancanza di un significato della vita, la cui realizzazione lo avrebbe reso felice, egli ha tentato di raggiungere un tale sentimento di felicità eludendo ogni realizzazione di significato, e quindi ripiegando su un elemento biochimico. In effetti, il sentimento di felicità, che normalmente non viene mai proposto quale fine dell’aspirazione umana, quanto piuttosto risulta essere una manifestazione laterale dell’aver-raggiunto-il-proprio-scopo, un “effetto” secondario, si lascia anche “rincorrere”, e questo è reso possibile appunto dall’alcool etilico» (Frankl, 2005, p. 17).
Per Frankl essere-uomo vuol dire essere fondamentalmente orientato verso qualcosa che ci trascende, verso qualcosa che sta al di là e al di sopra di noi, qualcosa che ci attira fortemente. Solo chi crede nella sua «volontà di significato» può costruire una gerarchia di valori tale da assegnare al piacere e alla potenza, all’autoaffermazione e alla soddisfazione dei propri istinti il loro vero posto, che è quello di essere prodotti laterali, effetti di una realizzazione del senso della propria esistenza.
Oggi è un’autentica sfida parlare di ricerca di senso, perché si viene subito riportati alla capacità radicale dell’uomo di scoprire i significati delle singole situazioni di cui è costellata la vita di ogni giorno, di assumere decisioni che corrispondono al suo dover-essere, di scoprire le possibilità che sono racchiuse nella sua irripetibile esistenza.
Se la vita dell’uomo è sempre specifica, in quanto si riferisce a un essere singolo, concreto, individuale, anche il compito non è qualcosa di generale, di valido per tutti e per ognuno, di permanente in ogni tempo, ma varia da uomo a uomo, perché corrisponde all’unicità e all’individualità di ciascuno. Nello stesso tempo, però, il compito varia da situazione a situazione, perché l’unicità delle situazioni porta con sé una caratterizzazione diversa, con esigenze e condizioni proprie, per nulla ripetibili. E quindi l’uomo deve attentamente osservare la situazione in cui si trova, e che non ha alcun riscontro con avvenimenti suoi e di altri già accaduti in precedenza.
Con la voce della coscienza l’uomo è in grado di percepire quale senso si celi in una situazione e di agire conseguentemente con responsabilità. «In un’epoca in cui sembra che i dieci comandamenti stiano perdendo la loro validità incondizionata per molti uomini, l’uomo deve imparare a percepire i diecimila comandamenti che sorgono dalle diecimila situazioni uniche di cui è costellata la vita» (Frankl, 1992, pp. 29-30). Ciò vuol dire essere interpellati continuamente dalla realtà, dalle situazioni in cui ci si trova e che chiedono una risposta. Ecco perché John F. Kennedy il 20 gennaio 1961, nel discorso di insediamento alla presidenza degli Stati Uniti d’America, ai suoi compatrioti disse: «Non chiedetevi che cosa potrà fare per voi il vostro paese, ma che cosa potrete fare voi per il vostro paese» (cit. in Dallek, 2004, p. 366). E quasi di rimbalzo, Frankl consigliava ai suoi uditori americani: «Dopo aver costruito la Statua della Libertà sulla costa orientale, sarebbe di costruire la statua della responsabilità sulla costa occidentale» (Frankl, 2010, p. 63).
Nella nostra era scientifica il progresso umano è calcolato in dati che possono facilmente essere misurati, introdotti nel computer e analizzati. Eppure, le risposte del computer indicano solo come l’uomo si comporta nella media e in gruppi-campione, mai come dovrebbe comportarsi in situazioni specifiche. «La nostra vita non è regolata ad ogni incrocio da una luce rossa che dice di fermarsi o da una luce verde che dice di andare avanti. Viviamo in un’epoca di luce gialla lampeggiante, che lascia all’individuo il peso della decisione» (Fabry, 1970, p. 80). Vivere, in ultima analisi, significa avere la responsabilità di «rispondere» esattamente ai problemi vitali, di adempiere i compiti che la vita pone a ogni singolo, di far fronte alle esigenze dell’ora.
I compiti che l’uomo è chiamato a realizzare vanno in una triplice direzione: il lavoro, l’amore e la sofferenza. Se nel lavoro l’uomo può manifestare se stesso dando alla realtà la sua personale impronta, se nell’amore egli può vivere le più forti e intime esperienze, nella sofferenza si manifesta la sua grandezza, perché solo in essa si trova tragicamente messo a confronto con se stesso, con la sua capacità non solo di lavorare e di godere, ma di soffrire.
L’uomo ha il diritto alla vita, al lavoro, alla gioia, alla pace; ma ha anche un fondamentale diritto che nessuno può toglierli, a nessun costo: il diritto di soffrire il proprio dolore, di inondare di senso anche una vita apparentemente distrutta, economicamente infruttuosa. La sofferenza «non rappresenta semplicemente una possibilità qualsiasi, bensì la possibilità di attuare il supremo valore, l’occasione per conferire pienezza al significato più profondo della vita» (Frankl, 2001, p. 190).
Un tale senso riluce nell’atteggiamento che l’uomo prende dinanzi a un destino di dolore, dinanzi alle forze avverse, dinanzi a situazioni irreparabili. Ecco perché l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe II nel 1784 volle che sull’entrata del Policlinico di Vienna fosse riportata la frase latina: Saluti et solatio aegrorum. Chi si fa carico della salute fisica e psichica di un altro è anche chiamato ad aiutarlo a sopportare con accettazione e comprensione le inevitabili sofferenze che la vita gli riserva e a riacquistare non solo la capacità di lavorare e di godere, ma anche quella di soffrire.
Per chi volesse saperne di più consigliamo il volume di Frankl, Homo patiens. Soffrire con dignità a cura di Eugenio Fizzotti, Queriniana, Brescia, 2011, 4ª edizione.
Bibliografia
1) Frankl V.E. (2005), Alla ricerca di un significato della vita, a cura di E. Fizzotti, Mursia, Milano, 4ª ed.
2) Fizzotti E. (2004), Dall’homo faber all’homo patiens. Viktor E. Frankl e la sofferenza umana, «Ricerca di senso», vol. 2, n. 1, pp. 35-49
3) Dallek R. (2004), JFK – John Fitzgerald Kennedy: una vita incompiuta, Mondadori, Milano
4) Frankl V.E. (1992), La sofferenza di una vita senza senso. Psicoterapia per l’uomo d’oggi, ElleDiCi, Leumann (Torino), 3ª ed.
5) Fabry J. (1970), < em>Introduzione alla logoterapia, Astrolabio, Roma
6) Frankl V.E. (2001), Teoria e terapia delle nevrosi, a cura di E. Fizzotti, Morcelliana, Brescia, 3ª ed.