Una riflessione su giustizia, carità e misericordia (Seconda parte)

Relazione di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, all’ultimo Convegno annuale della Fondazione Centesimus annus – Pro Pontifice

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Pubblichiamo oggi la seconda parte della relazione tenuta dal presidente emerito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, all’ultimo Convegno annuale della Fondazione Centesimus annus – Pro Pontifice, che si è svolto dal 19 al 20 ottobre scorsi a Cuneo ed era dedicato al tema “La giustizia è la prima via della carità” (Caritas in Veritate n. 6). 

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Nell’ordine pratico, la prima manifestazione della giustizia – l’imprescindibile condizione del suo manifestarsi – è perciò la libertà. La volontà costante e perpetua di rendere a ciascuno il suo diritto è, innanzitutto, volontà costante di riconoscergli il diritto alla libertà, primo fondamento di ogni relazione tra gli uomini, pre-condizione dell’eguaglianza: quest’ultima – e con essa la virtù della giustizia chiamata a garantirne la realizzazione – non potrebbe neppure ipotizzarsi senza il riconoscimento della reciproca libertà. La relazione umana si struttura tra eguali – e può dunque configurarsi come “giusta” – solo se gli “eguali” sono, innanzitutto, egualmente liberi.

Dunque, la giustizia è virtù fondata sulla costante autolimitazione, per garantire, innanzitutto, a ciascun altro di essere sé stesso, di essere libero. Questo è il primo “suo” da rendere a ciascuno da parte di ognuno: affinché ciascuno si possa mantenere, innanzitutto, nella propria sfera, in cui l’individualità si possa affermare ed espandere, collegandole poi tra loro in maniera da costituire un corpo sociale (J. De Finance).

Giustizia è, dunque, bene comunequinto libro dell’Etica Nicomachea), in quanto comprende ogni altra virtù e perché è «la sola delle virtù che sembra essere un bene altrui»; più bella di Lucifero, stella del mattino, più degna di meraviglia di Espero, stella vespertina, la giustizia è ragione umana (dunque, volontà nella libertà) che mira, nella constatata ingiustizia della “città terrena”, ad adeguarsi ad un ordine assoluto («giustizia mosse il mio alto Fattore», citando Dante, Inferno, canto III), per trovare modello e fondamento in principi ultimi ed universali.

Ma è anche una tensione perennemente errante: perché, dopo l’esperienza dello Stato teocratico, nessun sistema normativo dello Stato di diritto può consentirsi di «confondere buono o giusto con una proprietà naturale o metafisica» (George Moore). E’ difficilmente proponibile, insomma, una «ragione assoluta, metafisica, immodestamente convinta di essere in grado di determinare, con certezza, un insieme di principi ultimi». (Ludovico Geymonat)

Il destino di ogni concezione “moderna” della giustizia pare dunque assai singolare. Per un verso, la più efficace applicazione della giustizia – sia distributiva che commutativa – dovrebbe essere «quella che fanno, o almeno tentano di fare, i membri stessi della società, secondo la loro spontanea idea della giustizia» (Widar Cesarini Sforza): ma ciò non basterebbe ancora ad ordinare la società e neppure ad organizzare lo Stato secondo giustizia, in mancanza di leggi rivolte ad indicare obiettivamente le vie della giustizia.

Per altro verso, «venendo a mancare un primo rampino a cui appendere i sistemi normativi» (Mario Allara), siamo quasi portati a pensare che la giustizia si risolva soltanto in un ‘ideale irrazionale’; e che, perciò, nessun ordinamento giuridico possa davvero trovare un’adeguata giustificazione esterna in valori fondanti la giustizia.

Sembra, dunque, che stretta tra Scilla e Cariddi – tra l’inadeguatezza, cioè, di un’attuazione spontanea e l’impossibilità di una fondazione assoluta (il “primo rampino”, appunto) – la giustizia sia quasi condannata a coincidere con l’idea che di essa hanno i detentori del potere: a farsi, dunque, strumento del potere.

Peraltro, spesso la giustizia si intreccia con il potere in un rapporto assai complesso ed ambiguo, talvolta incestuoso. Infatti, il potere ha bisogno della giustizia per legittimarsi, risultando contro ogni dinamica storica la sopravvivenza, a lungo, di un potere assolutamente ingiusto; ma la giustizia ha bisogno del potere per realizzarsi, rimanendo, altrimenti, una vuota ed inutile aspirazione di uomini illuminati.

Inoltre, la natura relazionale della giustizia (e del diritto, in generale) non ha natura personale.

Nell’orizzonte della relazione giuridica, esiste solo un’ intersoggettività tra ruoli o tra soggetti tipici (creditore/debitore; locatario/locatore; imputato/parte offesa, ecc.), settoriali o collettivi, mentre è eclissata ogni dimensione personalistica, dell’io-irripetibile ed inconfondibile. La giustizia, pur essendo tesa verso la norma individuale giusta, non pone in essere un trattamento individualizzante (Luigi Lombardi Vallauri).

La giustizia presuppone sì l’alterità, ma esclusivamente nella forma del ruolo, della fungibilità dei suoi protagonisti. L’esperienza giuridica è necessariamente sociale, ma nel senso della bilatelarità che non diviene mai simmetria, della reciprocità che non evolve mai nella identità; essa procede per tipi, stabilendo una continuità e coerenza tra i singoli rapporti, che prescinde dalle persone. Non a caso, il tratto distintivo dell’iconografia di Dike − scandagliata in uno studio di Adriano Prosperi − è nella benda sugli occhi.

Sotto tale profilo, la giustizia non è unitiva, ma piuttosto delimitazione, distanza, linea divisoria, confine: il “suo” non sarà mai il “mio” ed anche il “nostro”− quando si realizza − avrà ovviamente delle precise delimitazioni all’interno. In generale (Lombardi Vallari), la giustizia postula una complementarietà ad excludendum; se io posso, allora significa che tu devi; se io posso, allora nessuna altro può; se è il “mio” non può essere il “tuo”, e così via: nell’esperienza giuridica non si incontra mai l’altro, proprio perché la giustizia può e deve «collegare gli uomini al di sopra di tutte le disuguaglianze naturali e culturali».

Il “prossimo”, nella relazione giuridica, non esiste in quanto rimpiazzato dal soggetto appartenente alla categoria sociologica/giuridica. La giustizia instaura una relazione impersonale e fungibile, persino di ispirazione ambigua: l’instaurarsi di un rapporto giuridico «obbedisce ad una ispirazione ambivalente: fiducia e diffidenza; affidamento ed autogaranzia; intesa con l’altro, difesa dall’altro; alleanza e competizione». Il diritto insomma è, come ha scritto Kant, «insocievole socievolezza» o, se si vuole, «avvicinamento-distinzione», secondo la formula di Gurvitch (Luigi Lombardi Vallauri).

A differenza della carità che, secondo San Paolo, “non quaerit quae sua sunt”, la Giustizia “quaerit quae sua sunt” e “non quaerit quae sua non sunt”: la giustizia non è il luogo dell’incontro, ma della separatezza che evita lo scontro e, per farlo, non può rinunciare a pretendere il dovuto, né consentire di prestare più del dovuto. L’iconografia di Dike ci aiuta di nuovo, esaltando, dopo la benda, la bilancia in equilibrio: oltre che la spada, per garantire questo equilibrio.

(La prima parte è stata pubblicata giovedì 17 gennaio. La terza parte uscirà domani, sabato 19 gennaio)

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ZENIT Staff

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