I figli non sono un possesso, ma un'esperienza di dono

L’esperienza della genitorialità alla luce degli studi e delle teorie di psicologi, psicoanalisti e pedagogisti

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Françoise Dolto, nota psicanalista francese, sosteneva che i figli non ci appartengono. Diceva che i genitori dovrebbero ‘adottare’ i propri figli, ma purtroppo spesso non lo fanno: “Non si ha mai un figlio come lo si è sognato, si ha un certo tipo di bambino e bisogna lasciare che cresca secondo la sua verità: spesso, invece, facciamo il contrario.”[1] Secondo Andrea Canevaro, professore di Pedagogia all’Università di Bologna, “un bambino deve essere accettato per quello che è, e nello stesso tempo deve essere desiderato per quello che lui sarà, al di là di quello che noi vorremmo che lui diventi.”[2]

Il bambino è una persona ‘originale’, cioè una persona che potrà acquisire uno sviluppo pieno esclusivamente se gli sarà consentita l’acquisizione di un’identità propria, che lo porterà a diventare qualcuno “mai esistito prima (nemmeno nell’immaginazione di chi lo ama o lo ha messo al mondo o lo sogna conforme a modelli ideali percepiti come assoluti). Un buon  genitore rispetta il ‘progetto’  misterioso nascosto nel seme originario di ogni figlio, non lo considera figlio di sua proprietà, ma ‘figlio della vita’ stessa, di quella vita in cui dovrà, un giorno, inserirsi autonomamente e da protagonista, abbandonando la matrice psicologica genitoriale in cui è cresciuto.”[3]

“La genitorialità – afferma la Prof.ssa Vanna Jori, docente  di Pedagogia alla Cattolica di Milano – è il primo progetto pedagogico: progetto per sé dei singoli attraverso le relazioni familiari; progetto di coppia nella relazione col partner per compiere un percorso comune; progetto per il figlio, che poi diviene progetto con il figlio attraverso una perenne mediazione tra le aspettative nei suoi confronti  e ciò che il figlio quotidianamente, con margini sempre crescenti di autonomia, sceglie per sé.”[4]

Un proverbio del Québec (Canada) recita che “i genitori possono regalare ai figli solo due cose: le radici e le ali”.[5]

Essere padre e madre è ‘stare accanto’ al figlio in tutte le fasi del suo sviluppo: nella primissima età essendo di protezione, guida e stimolo al bambino per la conoscenza di se stesso e del mondo in cui si trova a vivere, utilizzando le superiori capacità fisiche e psichiche di cui si è dotati in quanto adulti; successivamente, fungendo da supporto per il distacco psicologico dalla famiglia e per le esperienze di graduale inserimento nell’ambiente extrafamiliare e l’acquisizione dell’autonomia personale.

Secondo  Gloria Soavi, psicologa e psicoterapeuta, “il bambino ha un bisogno fondamentale per poter crescere in maniera armonica e sviluppare le sue potenzialità, e al di là di ogni categoria sociale, psicologica e pedagogica, si può sintetizzare in un unico bisogno primario (…): quello di essere amato. Questo bisogno di amore si articola in diverse azioni; l’essere accettato, accolto, accudito, seguito, riconosciuto nei suoi bisogni e nelle sue necessità, rinforzato nelle sue aspettative e capacità, tutto quello che gli dà la possibilità di creare un legame, che sarà il legame primario  su cui poi costruirà tutti i legami successivi e con cui si confronterà emotivamente per tutta la vita. Chi è genitore sa  di quante attenzioni costanti e coerenti nel tempo hanno bisogno i piccoli per crescere e per diventare degli adulti equilibrati  e sufficientemente felici. L’essere  figlio si sostanzia quindi fondamentalmente nella relazione  con i genitori attraverso la costruzione di questo legame così unico e complesso che si sviluppa nell’arco della vita e che muta continuamente, ma rimane come essenza, come radice e se è positivo come risorsa”.[6]

È assolutamente necessario dunque che la relazione genitori-figlio si basi sull’amore incondizionato  per il bambino. L’amore è però un sentimento soggetto ad alcuni rischi: può diventare possesso, egoismo, ricatto, proiezione di se stessi sull’altro. Anche l’amore generoso, infinito, disinteressato  di un padre e di una madre verso il figlio, può, in alcuni casi, trasformarsi in possesso egoistico del bambino, può sfociare in atteggiamenti autoritari, in controlli ossessivi nei suoi confronti. Il Cardinale Angelo Scola rileva come “la tentazione del possesso, quella di non permettere al figlio di essere fino in fondo ‘altro’, cioè veramente libero, minaccia continuamente l’amore paterno e materno. Accettare il rischio della libertà dei figli, in effetti, costituisce la prova più radicale nella vita dei genitori: al figlio si vorrebbe risparmiare qualunque dolore, qualunque male. Questa drammaticità, presente in ogni rapporto  umano, si fa particolarmente acuta nel rapporto padre/madre-figlio. Il legame è, qui, a tal punto potente da dare la percezione che, se l’altro – il figlio – si perde, mi perdo anch’io – madre o padre -. Allora diventa forte la tentazione di ridurre il figlio a sé, facendone una sorta  di prolungamento della propria persona.”[7]

Come osserva Guido Cattabeni, medico specialista in psicologia clinica, “per progredire nelle sue relazioni interpersonali, al bambino necessita l’esperienza, iniziale e successivamente confermata, di essere amato per se stesso, sempre, qualsiasi cosa gli succeda o comunque si comporti. Solo da questa esperienza fortemente valorizzante può nascere nel bambino la fiducia in se stesso e negli altri, il desiderio e la capacità di amare l’altro come ‘se stesso’, la disponibilità a far proprie le regole della convivenza sociale e a contribuire a migliorarle (acquisizione di un ruolo sociale creativo).”[8]

Il figlio dunque deve essere accolto ed amato per se stesso e non per le sue qualità, dal momento in cui vi è la sua presenza in famiglia. I genitori, nel donarsi al figlio, devono a volte saper ‘rinunciare a se stessi’. La fecondità è un’esperienza di dono e di distacco da sé.”Essa insegna  che perdere per ritrovare (Mc 8,35) è il segreto della vita, senza la quale essa perde di senso. (…) Il segreto della vita non risiede della vita stessa, da trattenere gelosamente: occorre rinunciare a sé per dedicarsi a qualcuno. Se la vita vuole essere ritrovata deve essere perduta nell’atto della libertà che acconsente ad essa come ad una grazia e a una promessa”.[9]

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Fonte: vitanascente.blogspot.it

[1]     L. ALLOERO, M. PAVONE, A. ROSATI, Siamo tutti figli adottivi. Otto unità didattiche per parlarne a scuola, Rosenberg & Sellier, Torino 1991, p. 128

[2]     A. CANEVARO, prefazione all’edizione italiana di J. Cartry, “Genitori simbolici”, Edizioni Dehoniane, Bologna 1989

[3]     L. ALLOERO, M. PAVONE, A. ROSATI, cit., p. 174

[4]     http: // iis.comune.re.it/osservatorio-famiglie/strumenti/strumenti 3/012_9.htm

[5]     L. ALLOERO, M. PAVONE, A. ROSATI, cit., p. 123

[6]     G. SOAVI, Quando il bambino impara ad essere figlio in “La famiglia per il bambino” (a cura di Associazione F.I.A.B.A. di Vicenza e A.N.F.A.A. di Torino), Atti del Convegno, Vicenza 8/11/2003, p. 1

[7]     A. SCOLA, Genealogia della persona del figlio in “I figli: famiglia e società nel nuovo millennio”,Congresso Internazionale Teologico-Pastorale – Atti (11-13/10/2000). Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, p. 103

[8]     L. ALLOERO, M. PAVONE, A. ROSATI, cit., p. 174

[9]     W. NANNI (a cura di), Adozione, adozione internazionale, affidamento, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 95

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Anna Fusina

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